I sorrisi di Settembre

L’arrivo di Settembre mi si rivela magicamente nel coglierne svariate sfumature. All’esaurimento generalizzato di Agosto, che fa da sfogo a istinti dettati da nevrosi sempre più volte al consumo bulimico e allo scarso rispetto del prossimo in un clima da giungla, si giunge a una calma speciale che richiama tutti a far i conti con sé stessi. Le distrazioni diminuiscono sostanziosamente, le ferite aperte non sono state rimarginate e le cicatrici si rivelano inevitabili in chi ha avuto veramente modo di vivere. Il disorientamento accresce e la stabilità desiderata diventa pressante. Mi ritrovo felice in questo pericolo perché sono preparato a godermi l’intero periodo, fino alla prossima estate, per come mi è incline, nel mio ordine organizzativo impeccabile e conciliabile con sogni e speranze che riconosco veramente come individuali.

I patemi assillanti intorno a me, di masse allineate che hanno esaurito la loro carica in poche settimane, li trovo distanti e sono pronto a sfogare e sublimare le mie passioni – dalla mente al corpo, dall’assimilare allo bruciare calorie in contesti differenti – per come effettivamente improntato a volerle realizzare. Lontano dai lamenti, sguazzo tra personalità cristalline, apprezzandone le sfaccettature, accettando ogni lato di insiemi che per natura debbono avere un rovescio della medaglia che con dedizione può essere riconosciuto e amato come la sua controfigura più folgorante e incantevole.

La forza deriva da un ordine mentale capace di farmi accorgere delle bellezze intorno, oltreché generarle, facendomi eroico creatore di un mondo fatato. Sguazzo nella mia pace e non vorrei essere nessun altro, sperando soltanto di poter far riferimento al mio modo di ragionare, interpretare l’accidentale e ordinare le idee. Saper stare talmente bene con me stesso, mi induce al potermi ben relazionare anche all’esterno, per accrescere ulteriormente nel sano confronto con chi incontro, attraggo e valuto affine al mio modo di essere. Conservo ogni magia passata, riempiendo di significati il mio trascorso, impreziosendolo, incorniciandolo, rendendolo immortale, innalzandolo all’assoluto, confermandomi quanto abbia vissuto col cuore le situazioni aderenti al mio tempo della vita (come lo indicherebbe Bergson). In un sorriso distante ma lontano, ignorato ma avvolgente, passato ma ben inteso nel presente, ricevo come una benedizione e rivedo l’infinità di fantasie attualizzate, felice e conscio di quanto rimanga indelebile nell’etere. Forte di quella capacità di donare e donarmi, accompagnata dalla resistenza coscia delle difficoltà di andare oltre all’amarsi un po’, avanzo consapevole e incline alla mia mutabile ma continua scoperta.

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Il mondo e l’uomo

Del fumo si eleva verso il cielo, imprecisata carne viene arrostita per strada a due passi dal tempio del gioco del calcio: il Maracanà. Tanti bambini con la maglia a strisce rossonere del Flamengo si rincorrono, altri a torso nudo tirano calci a lattine vuote, in mancanza di un pallone. Ondate di persone escono dalla metro, altre si riversano con mezzi di trasporto privati. I controlli sono celeri e superficiali, vengono sequestrati soltanto dei fischietti venduti pochi metri prima dall’ingresso. Lo slalom tra la gente del posto, girando intorno al gigantesco impianto sportivo, conduce finalmente il signor Limbadi all’entrata nel suo settore. L’emozione sale difronte a quella distesa verde, il tifo è diverso dai ricordi europei ma la passione per il calcio dei brasiliani non è affatto deludente. Tutti ammassati, come nelle strade dove imperversa il carnevale nei blocos lungo tutta Rio, si contano sulle centomila presenze. Lo spettacolo è tutto sugli spalti, in campo soltanto qualche scarto del campionato italiano. I padroni di casa vincono e lasciano gioire il popolo carioca. Facile è perdersi di vista all’uscita, l’esodo è ancor più clamoroso dell’ingresso, l’orario è uguale per tutti. Circondato da vita vera, autentica, genuina, vibrante e variopinta, Limbadi riesce a raccapezzarsi e far ritorno in un luogo più o meno sicuro, dove una stanza anni 70 lo coccola e isola. La doccia dura molto più del previsto, per togliersi il sudore che l’afa brasiliana appiccica addosso anche la sera e decontaminare il proprio corpo (almeno mentalmente con in testa la canzone intitolata “Lo Shampoo” di Giorgio Gaber) da possibili infezioni causate da tutte quelle interazioni, a stretto contatto con una moltitudine di gente, non tutta perfettamente pulita e sistemata. Uno sguardo al telefono, prima di addormentarsi, e Limbadi minimizza la paranoia che imperversa tra le chat che riportano notizie dalla sua Italia, dove un certo virus sta provocando qualche linea di febbre alla popolazione. Il contagio non lo preoccupa, pensa che se la caverebbe facilmente, in Brasile non se ne ha la minima percezione e il distanziamento sociale sembra quanto di meno probabile si possa pensare, considerando gli enormi assembramenti che mai nella sua vita si erano visti così pomposi. Al risveglio, rinvigorito da una profonda dormita, prima di raggiungere in pochi passi la spiaggia di Copacabana, l’ascensore conduce al piano terra per la colazione. Un cake al cioccolato, o forse bolo in portoghese, aspetta Limbadi che ne resta puntualmente insoddisfatto dal gusto, nonostante il bell’aspetto. Immancabilmente in infradito, canottiera e costume, succede qualcosa di strano quando a pancia piena tenta di uscire dalla hall. Marcos, il solito impiegato incaricato ad aprire e chiudere la porta, stavolta decide di aderire solo al 50% delle sue mansioni e si occupa, vigile, di tenerla perentoriamente sbarrata. Rio de Janeiro è stata proclamata zona rossa! Da verde oro tutti samba, sole, mare e festa, a chiusi in casa. Per le enormi strade trafficatissime fino a qualche giorno prima, si vedono unicamente persone coricate sui marciapiedi, ancora assonnate. Solo chi abita le favelas gira per la città, indisturbato e disorientato. Il signor Limbadi avrebbe dovuto forse terrificarsi, se non almeno preoccuparsi della situazione, non avrebbe però goduto dell’appellativo “il limpido” se ciò si fosse verificato. La sua pacatezza e imperturbabilità rimasero salde, lasciandogli impiegare solo pochi istanti per elaborare la situazione e non innervosirsi. La smisurata fiducia di base verso il prossimo, influenzata da un’infanzia felice, sicura e protetta, lo hanno reso quasi ignaro delle meschinità e della brutalità dell’umanità, andando a considerare quasi esclusivamente il bene in qualsiasi individuo. In questa vicenda ha subito visto un’occasione speciale, di contaminazione non da virus ma da mondo esterno, nudo e crudo, spoglio dai privilegi che sanno essere anche delle catene limitanti. Quando accade qualcosa è impossibile stabilirne gli effetti a lungo periodo ed è sciocco interpretare subito l’accaduto come positivo o negativo. Per “il limpido” si presentava l’occasione per un’avventura, la sua capacità di fantasticare e sognare aveva già rivoluzionato la realtà, rendendola da monotona a entusiasmante. L’euforia interiore di cui si era pervaso sembrava colma di ingenuità, non poteva conoscere cosa gli sarebbe accaduto restando bloccato ben oltre la data del volo intercontinentale di ritorno dal Brasile. L’apertura alla vita in maniera giocosa, evitando di vedere l’imperfezione esistente che si fosse generata, gli consentiva di utilizzare i suoi ideali per mutare attivamente il presente, senza piegarsi a interpretarlo nel dramma. Non sapeva ancora che prove lo avrebbero atteso, le sue credenze erano pronte a mettersi in discussione, da quest’improvvisa vicenda ne sarebbe uscito in qualche modo arricchito.

Marcos venne presto esonerato dal rimanere dinanzi alla porta, considerando che nessuno sarebbe più entrato o uscito. La sua mansione tanto monotona, non era incline al suo carattere. Il giovane brasiliano amava esplorare e mostrava una profonda insofferenza a causa delle limitazioni dovute dal virus. Marcos mal sopportava le routine consolidate ed era abituato a vivere – fuori dagli orari lavorativi – sempre in giro, senza restarsene mai in casa. Il clima di Rio, in tutti i mesi dell’anno, favoriva la sua attitudine. Marcos non aveva vestiti eleganti per uscire e trovava sempre un modo per divertirsi, anche da solo considerando non potesse essere continuamente spalleggiato (nel suo non fermarsi mai). La spiaggia era il suo habitat naturale, praticava ogni sport sulla sabbia di Copacabana. Senza esser mai stato iscritto a nessuna scuola di calcio, tennis o pallavolo, ma neanche aver frequentato palestre, aveva molta dimestichezza con queste attività. Il suo fisico era scultoreo: asciutto e muscoloso, la carnagione chiara e sempre molto abbronzata ma il suo interesse era unicamente rivolto al potersi sfogare all’aria aperta, più che al ben vedersi allo specchio. Marcos non accettava la realtà, era conscio dei rischi del virus ma, fosse dipeso da lui, avrebbe gradito correrli pur di uscire. Una vita statica, da recluso, non valeva neanche la pena viverla. Il presente non era solito saperselo godere, per lui gli attimi andavano solo bruciati, nella rapidità volta a raggiungere e superare anche i seguenti. La sua impazienza, più di una volta, lo condusse a fare delle scenate, sentendosi condannato a lavorare 24 ore su 24, 7 giorni su 7, quando mirava a fare il meno possibile in albergo, per poi liberarsi a correre e giocare. Le sue ambizioni erano criticate dai genitori, che lo consideravano uno scansa fatiche. L’ubbidienza non era mai stata il suo forte, al contrario del fratello che seguendo precisamente i dettami indicati dalla famiglia, si trovava però divorziato dalla moglie (che era stato spinto necessariamente a sposare) e con un lavoro rispettabile che gli rosicchiava ogni residuo energetico. Marcos invece sapeva per cosa vivere, anche se non era in grado di ben identificarlo e benché meno spiegarlo. Riconosceva di avvertire dei momenti di allegria sfrenata, surreali e sproporzionati a quanto effettivamente affrontasse. Un legame viscerale e verace col territorio intorno a lui, a quelle strade conosciute, fiero di calpestarle, con l’orgoglio di poterle popolare anche quando il periodo turistico andava a ridursi, rendendosi conto – anche mentre tutti vi si divertivano in alta stagione – che quegli spazi rimanessero profondamente suoi, sentendosi magnanimo nel concederli volentieri agli altri affinché potessero beneficiarne e trascorrere momenti indimenticabili che avrebbero per sempre custodito nei loro ricordi più preziosi. Questi attimi di euforia gli capitavano all’improvviso ma rintracciava come comune denominatore la possibilità di potersi sentire libero e assorto nella sua città. Marcos andava a ricercare continuamente questa lucida esaltante contezza, aldilà dalla sua facile professionalità legata all’aprire e richiudere una porta, inconsapevole che in Europa le porte automatiche fossero ormai presenti in ogni albergo come anche supermercato di provincia, col suo ruolo divenuto desueto come ormai impensabile.

Un suo collega piuttosto simile caratterialmente, impiegato nella hall, veniva chiamato Esmualdo e soprannominato “il folle” per via della sua caratterizzante irrequietezza e incapacità di tenere a bada gli istinti. Sembrava di trovarsi difronte a un bambino troppo cresciuto: gridava e gesticolava a ogni fastidio, risultando molto scenografico ed egocentrico. Poteva anche esser scambiato per autistico, quasi disconosceva la parola, eppure era tutt’altro che problematico, anzi era forse la dimostrazione di quanto lo fossero tutti gli altri. Dava sfogo alle sue pulsioni, senza temere il giudizio altrui, non lasciandosi limitare dalla società, col rischio di reprimere sé stesso. La sua esuberanza lo rendeva un continuo eccesso, gli altri lo odiavano o lo amavano, senza mezze misure. Esmualdo non poteva pertanto sopportare la rigida schematicità imposta dal virus, vivendo la situazione con tutta la creatività che avesse in corpo, senza badare alle conseguenze delle sue decisioni, come se il suo unico intento fosse quello di non frenarsi, di non accettare imposizioni esterne. Il sentirsi additato come incivile o irresponsabile non lo toccava, con assoluta lucidità sosteneva che la sicurezza non la desiderava, perché era una cella (sempre altrettanto insicura). Per lui, tutti avrebbero dovuto accettare il rischio, sottoponendosi anche al pericolo di ammalarsi, pur di non smettere neanche un momento di sentirsi liberi. Esmualdo non accettava neanche le minime contromisure, difendeva questa sua idea esasperatamente, anche al costo di perdere le sue parziali parti di ragione a causa di un estremismo sfrenato. A furia di tutelare il suo mondo interno, quello esterno gli era sfuggito di mano. Un problema assai raro, del tutto contrapposto a quanto vissuto dal resto degli individui di quest’era. Un uomo del tutto fuori dalla caverna platonica, dalla quale resta ben lontano, vivendo a modo suo aldilà delle regole della massa, pure quelle ben congeniate e universalmente utili. La mancanza di controlli ferrei in Brasile lo rendeva intoccabile, anche per questo aveva deciso di tornare in questa terra colma di concessioni. Lo sdegno che provava verso i cittadini di popoli tanto precisi e ordinati era imparagonabile a quello di chiunque verso un qualsiasi altro soggetto disgustoso. Gli anni trascorsi girovagando per il nord Europa li ricordava come privi di trasporto emotivo. Quest’idea e massiccia identificazione di sé stesso, lo condusse a non criticare più il suo Brasile. Esmualdo aveva imparato una preziosa lezione: far caso alla felicità. La quotidianità che affrontava era una lotta contro l’inerzia, assorto da quanto gli accadesse intorno, nel presente, senza orizzonti idealizzati o brame di possesso. La prospettiva di un El Dorado che avrebbe trovato tra la Germania e la Scandinavia ricordava come lo avesse lasciato vivere nell’attesa, per poi non trovare nulla, capendo come indietro ci fosse quanto desiderasse ma gli mancava la giusta propensione per saperlo vivere e apprezzare. A volte si sentiva solo: era difficile stargli affianco. Lui stesso considerava gli altri una massa di ipocriti, colti dalla necessità di sentirsi apprezzati e per questo disposti a uniformarsi in ogni maniera. Aveva conosciuto tante persone intimamente tristi e disperate ma capaci di fornire un’apparenza del tutto differente. L’importante per loro era non farsi conoscere, non lasciarsi scoprire. Lui desiderava l’esatto contrario, infischiandosene dei giudizi della gente che disprezzava e dalla quale voleva sentirsi differente.

Marcos ed Esmualdo erano potenziali buoni amici, considerando le similarità tra loro. Invece erano soliti litigare, sulle più disparate amenità. Era come se la loro carica rivoluzionaria, tutta quella ribellione che gli ribolliva in corpo, venisse convogliata su stupidaggini che, tronfi, gli faceva gonfiare i rispettivi petti per sostenere le proprie ragioni, convinti entrambi di trovarsi nel giusto. In queste circostanze sembrava vestissero delle uniformi di qualche casata della quale innalzare i vessilli. Entrambi, presi singolarmente, erano soliti sentirsi forti, potenti, capaci di tutto. Inseriti in un gruppo finivano col maturare uno spirito di sopraffazione verso gli altri, non riuscendo a collaborare, mirando a sottomettere il vicino per far prevalere la loro posizione. Questa tendenza li induceva a isolarsi, per riprendere presunta coscienza della loro superiorità e sentirsi meglio con sé stessi. Il becero egoismo che dimostravano, rapportandosi anche con le rispettive partner che avevano avuto per rispecchiare al meglio la loro persona, mirando puntualmente a prevalere per sentirsi di aver ragione, gli impedivano una vita piena e completa dal punto di vista affettivo. Ad attrarre le loro simpatie, vi era Alves de Souza: uno stregone brasiliano. Chiamato il “mago” riscontrava tanto credito da parte di chi popolava le favelas. In quelle zone le superstizioni erano molto sentite, ricoprendo un ruolo di primaria considerazione. Alves de Souza consigliava a Marcos ed Esmualdo di unirsi spontaneamente col prossimo, mostrando le loro fragilità. I giovani si innervosivano, si chiudevano in silenzi assordanti e scomparivano. Da soli, rimuginavano su come potessero essere il centro del mondo, lo volessero, anzi lo dovevano essere e lo erano. Per lo stregone, questa smania di sentirsi importanti e affermati era la loro condanna. La pretesa non poteva che generare infelicità. Lui era piuttosto interessato a offrire cure magiche e il signor Limbadi era convinto che il “mago” per primo vi credesse effettivamente. Alves de Souza si sentiva benedetto da Dio, sosteneva di avere un dono. La sua intenzione non era quella di truffare le persone, non richiedeva infatti neanche pagamenti, accettando soltanto delle offerte o meglio del cibo, senza badare al quantitativo. Traeva piacere nel credere di aiutare la gente, di mettere al servizio degli altri le sue abilità. La paura del contagio non fermava così le sue convinzioni, avvicinandolo agli ammalati per tentare di curarli. Per fortuna – o forse chissà per via dei suoi poteri miracolosi – il “mago” riuscì a non contrarre mai il virus, nonostante non usasse alcuna protezione e fosse stato in contatto con chi avvertiva tutti i sintomi provocati dal protagonista di questa pandemia.

A non godere della stessa buona sorte fu Orlando. Per lui venne chiamato “il mago” in albergo, nonostante un pragmatico come Orlando lo considerasse soltanto un ciarlatano, ritenendo qualsiasi metafisica un inganno per gli stupidi. I brasiliani, e i sudamericani in generale, consideravano gli occidentali come Orlando dei poveracci incapaci di affrontare la propria vita con magia. I sintomi di tosse, assenza di gusto e febbre molto alta, colpirono questo quarantenne che nel corso della malattia si sentì tanto solo e preferiva rimanere tale piuttosto che cedere a quelle inutili corbellerie. Orlando aveva provato a non chiedere aiuto, in quanto non era abituato a farlo, tendendo a estraniarsi dal mondo. Se si fosse anche solo potuto rivolgere a una farmacia, procurandosi del paracetamolo per arrestare l’influenza, sarebbe diventato meno celebre in zona Copacabana, rimanendo nel suo agognato anonimato. Inizialmente tentò di riporre grande fiducia nel suo sistema immunitario, sperava di poter essere asintomatico, presto si dovette però arrendere al vano tentativo di minimizzare gli effetti del virus. La scarsa fiducia verso il prossimo aumentava esponenzialmente in lui, che dopo questa brutta avventura aveva deciso ancor più di chiudersi irrimediabilmente a guscio in sé stesso. Nel suo passato aveva avuto brutte esperienze, sentendosi spesso sfruttato, imparando così che se qualcuno lo avesse avvicinato sarebbe stato per mera convenienza, spolpandolo fin quando avesse qualcosa di utile da offrirgli. Per certi versi era anche disposto a offrirsi al prossimo in cambio di compagnia, stando ai suoi servigi, aveva però paura di non bastare per sempre, il che gli causava tanta ansia. Il contagio gli insegnò, ancora una volta, che avrebbe dovuto far affidamento soltanto su sé stesso. Essere autarchici, quando non si è disposti a fare tante rinunce, a limitari gli agi, risulta però impossibile data la necessità umana di cooperare per migliorare il proprio stile di vita. Orlando era figlio del suo tempo e tutt’altro che disposto a un’esistenza da cane, potendosi considerare un uomo di successo. Era riuscito a conseguire una prestigiosa laurea e un ambito posto di lavoro. Vestiva ogni giorno in giacca e cravatta, riuscendo insaziabilmente a portare a termine tutti i suoi obiettivi, seguendo quella linea guida implicitamente indicata come ricetta per la felicità. La notte, sul suo letto, si trovava però troppo spesso a dover scacciare dei pensieri che si annidavano nella sua mente. Nel tentativo di entrare in intimità con sé, scrutava dell’oscurità e si sentiva insoddisfatto, vuoto, se non in qualche modo sporco. Crogiolandosi sotto le lenzuola faticava a prendere sonno, provava a distrarsi, a non affrontare e chiarificare quanto lo tormentasse. In questi frangenti ripeteva nella sua testa quei cavalli di battaglia che lo avevano da sempre motivato, che all’esterno venivano generalmente apprezzati. Doveva per forza esser fiero chi si era creato una carriera rispettabile, era attorniato di gente in ufficio, veniva stimato e anche temuto, riscontrando una riconoscenza sociale di alto rango per via della sua ottima posizione. Orlando si sentiva superiore agli altri per tutti questi titoli conquistati, quel senso di impotenza non doveva appartenergli, i canoni da sempre considerati, ricevuti in suggerimento e consacrati dalla società non potevano rivelarsi fasulli. Questo era il suo tormento, la mancanza di strumenti in suo possesso per saper interpretare la realtà, le infinite variabili incontrollabili in termini di insicurezza, quanto gli accadesse fuori dal suo controllo e da quel mondo di forzature burocratiche nel quale era stato catapultato, inghiottito e imprigionato. Sentiva che per lui non fosse mai andato nulla nel verso giusto e si faceva schifo nell’avvertire quel senso di goduria per il fatto che ora anche il resto dell’umanità fosse limitato dalla pandemia, sentendosi visceralmente invidioso di molti suoi simili, specialmente i più abbienti in termini di dedizione a una vita contemplativa e creativa. Lo sollevava quel mal comune, nonostante fosse stato ancora una volta lui particolarmente sfortunato ad averne subito gli effetti più devastanti in prima persona, sulla sua pelle.

Il signor Limbadi era preoccupato per l’idea che si era fatto sulla gestione politica in Brasile. Il governatore, un certo Saldoao, si atteggiava da sovrano dispotico, fornendo l’impressione di trasformarsi sempre più in tiranno. Quest’uomo, di bassa statura e magra costituzione, adorava mostrarsi difronte alle telecamere, vestire sfarzosamente e attuare atteggiamenti altezzosi, che lo facessero sentire una persona importante, autoritaria e superiore. Sembrava gli importasse comandare, curandosi di prendere ogni decisione in prima persona, senza badare troppo agli effetti, che considerava in ogni caso imprevedibili. Riteneva imperdonabile soltanto l’indecisione, così tentava di ridurre all’osso le libertà dei suoi concittadini per accrescere la sua sensazione di potere basata sull’illusoria sensazione offerta in termini di protezione in cambio di cieca obbedienza. Le scelte impopolari intraprese, lasciavano molto discutere in una Rio intollerante alle eccessive restrizioni. Quest’aria di rivolta da una parte, ed estrema tendenza al controllo e al dominio dal lato istituzionale, preoccupava l’attento Limbadi: speranzoso che qualcuno frenasse Saldoao dalla brama di padroneggiare la situazione, credendosi in grado di gestirla a tutto tondo. Le manie del governatore, per conservare quest’illusione, si facevano sempre più pericolose, in concomitanza con il potere che poteva esercitare e la convinzione di agire nel giusto. La scusa di ergersi a paladino della difesa della salute, lo rendeva deciso sulle sue ragioni che in realtà volevano solo soddisfare quel bisogno di controllo e voglia di supremazia. Limbadi lo inquadrava come un individuo egoista, con la tendenza al dominio per l’incapacità di una convivenza insieme agli altri. La sete di sentirsi nel giusto lo preoccupava sopra ogni cosa, dato il suo anteporsi alla possibilità di un incontro autentico, privo della necessità di auto affermarsi a discapito degli altri, nella certezza di provocare seri danni e di formare un clima disteso e felicemente vivibile. In alcune apparizioni televisive, si intravedeva anche la moglie di Saldoao. A Limbadi appariva triste e infelice, presumibilmente vittima dell’assurda gelosia e prepotenza del marito che non le consentiva di esprimersi liberamente, costretta ad assoggettarsi e incapace di ribellarsi, anche per una questione di comodità: non sapendo cosa fare senza gli agi da lui proposti.

Divagando nel flusso immaginifico dei suoi pensieri su questa donna, “il limpido” la concepiva come infondo amata da Saldoao, che ne apprezzava lo spirito materno e quell’attitudine nel porsi in maniera dolce e accogliente. In ogni errore, il sovrano si sarebbe potuto sentire sostenuto dalla presenza di quella compagna che avvertiva quasi come una martire: una santa in grado di elevarsi nonostante il suo scarso rispetto e mancata acclamazione. Nel continuo fluire delle sue idee, Limbadi ipotizzava come il sovrano non riuscisse a essere carino con lei, sia per attitudine personale, quanto per come la vedesse totalmente dipendente da lui, quindi scontata, ormai conquistata e senza la possibilità di perderla. Presumendo non si fosse mai spinta ad esprimere a suo marito una negazione, sembrava che questa donna avesse assopito ogni bisogno o desiderio, incentrata soltanto sul soddisfare quelli di Saldoao. Il signor Limbadi, se così fosse stato, riteneva lei la principale artefice di quella relazione soffocante e colma di vincoli, lontana dal puro amore che include sacrificio reciproco, slancio innato e disinteressato. Immaginandola chiusa nella sua sfarzosa casa, la visualizzava da sola, annoiata, davanti alla televisione. Qualche volta, magari, in una soap opera televisiva sudamericana, aveva sentito parlare di rispetto di sé, ascolto, comprensione, accoglimento, empatia, cura, premura, attenzione, protezione, affetto, capacità di accudire, coccolare. E ancora di pace, armonia, accettazione, generosità, compassione, supporto, sostegno. Di dare senza ricattare con il senso di colpa, senza annientare l’altro, farlo incondizionatamente senza chiedere nulla in cambio. Limbadi poteva così vederla turbata, perlomeno più espressiva che sullo schermo durante alcune apparizioni del marito. Nella sua immaginazione, la donna doveva faticare la notte per prendere sonno, girandosi continuamente sul letto senza potersi togliere dalla testa questi concetti. Da sola, senza lui che non avrebbe gradito i suoi movimenti mentre avrebbe voluto dormire. Alla fine, pensava Limbadi, che col tempo sarebbe riuscita a inghiottire tutto, escludendolo, eliminandolo dalla mente senza elaborarlo e badando bene a non affrontarlo, non volendoci rimuginare per distogliersi dal garantire spazio alla sua profonda insoddisfazione di fondo. In queste riflessioni, presagio di una possibile ispirazione per delineare il personaggio di un racconto, il signor Limbadi si rese conto di come al centro del suo pensiero si fosse istaurato questo concetto di morbidezza nei rapporti tra uomo e donna, che riteneva centralissimo e fondamentale in un quadro generale più ampio possibile. Il modo utilizzato per immedesimarsi nella moglie del governatore brasiliano, lo portò alla realtà del genere umano bisognoso degli altri nell’incoerenza di un mondo che plasmi individui egoisti. La possibilità di discostarsi dalla follia collettivizzata, in concomitanza con l’impossibilità di un bene comune universale e la tendenza narcisistica radicata in una parte della natura umana, trova riscontro nell’unione di coppia, nel “noi” appena consentito e al di fuori dalla singola unità, che può essere pieno conforto personale e forse anche possibile preludio di un nuovo inizio fondatore di una società più in linea con le attitudini meno superficiali e contrastanti degli esseri umani.

A riportare il signor Limbadi alla realtà, facendolo uscire dal circolo della sua immaginazione, fu Simone. I due, accompagnati dalla stessa sorte che li vedeva bloccati in albergo, avevano molto legato e si concedevano lunghe chiacchierate sui divani sparsi su ogni piano. Simone era in Brasile per consolidare la coraggiosa scelta che aveva compiuto. Per anni aveva trovato le maggiori gioie della sua vita di Domenica, quando abbandonava il letto soltanto a ora di pranzo. Si svegliava molto prima ma restava lì, senza far nulla, a godersi il protrarsi del tempo al caldo, finalmente senza l’obbligo di doversi alzare in un gesto tanto semplice ma visto come faticoso, al punto che gli serviva tutto il coraggio del mondo per ripeterlo continuamente. Fuori dal letto, c’era il gelo del nord America che associava al dover correre a produrre per altri. Il suo datore di lavoro, pensava sempre perché venisse chiamato così, considerando che a lui il lavoro – più di darlo – glielo prendeva. Simone produceva tanto, tantissimo. Era consapevole che il suo salario se lo guadagnasse in mezza giornata. E tutto il resto del mese? E in tutto il resto del mese arricchiva il datore, anzi appropriatore. Sentiva la sua vita sottratta dal suo tempo, dalle sue capacità, in cambio di una miseria. Evitava di esprimere queste sue idee. Sarebbe andato su tutte le furie a sentirsi rispondere: “e allora fai da solo, mettiti in proprio”. Come se lui avesse il denaro per detenere tutti i mezzi di produzione necessari. Quanto percepiva non valeva nemmeno il gelo che gli entrava nelle ossa e che tentava di rimediare in quelle lunghe mattinate domenicali a riposare, sveglio, senza far niente. Simone si sentiva ingannato anche nel tempo libero speso da consumatore che continuava ad alimentare il sistema. Vedeva i suoi colleghi come degli automi che agivano disumanamente e pensava che certi comportamenti fossero contagiosi. Temeva di poter diventare anche lui un viscido e osceno isterico, convogliato nell’ingurgitare qualunque nuova moda, consumando a dismisura, dominato dagli oggetti e dai bisogni indotti che non gli appartenevano, fino a vederli impadronirsi dei suoi già rarissimi svaghi autentici. Sentiva gli sfuggissero gli effettivi canoni di preferenza personale e trovava complicato rapportarsi con chi lo attorniava, in quanto additato da mire egoistiche per accrescere il proprio ego, nel racconto di falsità facilmente smascherabili. In un’occasione era stato mandato in trasferta lavorativa a New York, odiando visceralmente quella città tutta luminosa, trovando dietro quei luccichii delle promesse fasulle e incostanti, celanti soltanto desolazione tra quelle strade pericolosissime da percorrere di notte, per via della disperazione di una grossa fetta della popolazione. Non sopportava i pomposi capi americani, che si facevano grandi e camminavano con grosse automobili simbolo di una presunta gloria che lui vedeva misera già solo per quell’infinita voglia di ostentarla e smania che avrebbe ineluttabilmente condotto all’autodistruzione. Piaceri effimeri, provvisori e fugaci nello svanire del loro effetto non appena realizzati. Incompreso e lontano da quel mondo che avvertiva come potesse presto risucchiarlo, aveva deciso di farla finita, si era licenziato. Una scelta difficile, non condivisa da nessuno a lui vicino. Era però troppo stufo di adorare come dei feticci tante stupidate che acquistava col suo stipendio, nel disperato tentativo (da lì a breve) di svenderle pur di guadagnarci un minimo al posto di gettarle. Sentiva stesse cambiando per colpa del fascino delle finzioni, avvertendo la sensazione che gli stessero iniettando idee inutili, aspettative viziate e fatalmente pretenziose, per uno stile di vita alla lunga insostenibile. Tante volte si era sentito attratto da proposte ambientaliste, sognava un clima di unione ma vedeva le risorse naturali esser sfruttate e gli uomini cercare di sopraffarsi a vicenda. Simone avvertiva che il suo impegno gli venisse sottratto via, non possedeva il risultato del lavoro svolto e si considerava soltanto un’appendice impossibilitata a poter esprimere libera iniziativa. Il signor Limbadi lo ascoltava e capiva, sentendosi molto vicino alle sue considerazioni, trovando una grande affinità col ragazzo al quale augurava fortemente di non doversi mai pentire della scelta adottata sul cambiare vita.

Ad attirare la curiosità di Simone c’era anche Giovanni, un italiano in procinto di diventare prete. I due avevano avuto modo di conversare insieme nelle cene in hotel, con Simone che si era preso la confidenza di essere schietto e sincero nell’affermare che secondo lui le religioni fossero una sorta di calmante, un’appendice dell’economia, che depotenzia e rende governabile il popolo che accetta così la sua dimensione da subordinato attraverso questo lenitivo che funge da sedativo. Simone andava aggiungendo che ormai fosse superata la questione della fede, con ogni Dio sempre meno seguito e creduto, in favore del consumo che ne assumeva le stesse funzioni, convogliando la rabbia della gente sullo shopping, sui programmi televisivi o social network volti a legittimare la diffusa alienazione. Il signor Limbadi appoggiava Simone e non perdeva occasione per incoraggiarlo, facendogli notare come la modernità favorisse la finzione, catturata in ostentazioni e assuefazioni scaraventate ad esempio sugli sport e sulla politica, oltre che appunto sulla religione. Solo questi artifici accendevano gli animi, con la conseguenza che nessuno più si incazzava per togliere una parte di potere alle multinazionali in un mercato globale che schiavizza gli individui, o meglio degli agglomerati di persone prevedibili e gestibili. Giovanni pativa molto queste opinioni tanto ben argomentate che sembravano non aver falle. Le conosceva e ne soffriva perché lo mettevano in crisi ma anche perché, data la sua empatia, si faceva carico della sofferenza celata dietro ogni frase. Si nascondeva sempre dietro una certa spiritualità che non poteva esser capita e pertanto neanche spiegata ed espressa. Attraverso essa Giovanni giustificava tutto e riduceva i dolori avvertiti. Entrava in contatto con sé stesso al punto da temere che Dio non fosse un soggetto esterno ma il frutto della sua stessa credenza strettamente personale, avvicinandosi così al mistero della fede. Alla preghiera si affidava anche per la pandemia in corso, trovando un equilibrio personale, impossibile però da trasmettere agli altri e inteso da Simone soltanto come un auto inganno. Di quest’opinione, Simone non ne faceva però chiara menzione, per non dover far battute sulla possibilità di aver fede su qualsiasi personaggio immaginario ed evitare di ferire il prete con eccessiva franchezza, vedendo a sua volta Giovanni come una persona debole, da difendere e compatire.

Il virus sembrava aver scoperchiato le problematiche più profonde e radicate in ogni individuo, impedendo che le scuse accampate interiormente potessero continuare a reggere. I sistemi di difesa che attraverso delle menzogne ognuno si racconta per sopravvivere a dei traumi passati erano stati messi a dura prova, spingendo ognuno a un atto introspettivo. Era il caso di Dalinda. Questa bella ragazza bosniaca era solitamente distratta, incapace di concentrarsi attentamente per un prolungato periodo di tempo. La sua debole soglia dell’attenzione, la spronava ad andare alla continua ricerca del superfluo. Di ogni cosa sembrava catturare solo delle minime parti, dei brandelli. Queste piccole fette le dimenticava presto perché risuonavano nella sua testa solo come tormentoni. Delle canzoni, ricordava solo il ritornello (e spesso incompleto) senza neanche capire cosa dicessero le parole, cantandole in maniera meccanica. Ai libri, preferiva gli aforismi, quelli più brevi. Quest’incompletezza, durante la quarantena obbligatoria, le dava il tormento perché trovava meno stimoli che la facessero continuamente distrarre. Dalinda, al signor Limbadi, sembrava schiava della tecnologia. Non l’aveva mai vista senza il telefono in mano, immancabilmente quasi scarico. In un dialogo con lei, che ascoltava distratta, riuscì a restarsene zitto, facendole elaborare un concetto. Ne estrapolò come fosse una ragazza profondamente impaurita, non tanto dal virus ma della vita in generale. Aveva bisogno di protezione e sicurezza e, per ottenerle, era disposta a rinunciare a qualsiasi cosa, compresa la sua libertà (come già faceva fornendo ogni suo dato e informazione in cambio di comodità virtuali). Era una grande fautrice della Cina, di come stavano affrontando la pandemia. I metodi invasivi era pronta ad accettarli totalmente nella sua sfera privata, l’importante era che si sentisse in qualche modo protetta, dal virus come principalmente dalla minaccia di città insicure e da qualunque sorta di pericolo che percepiva. Il controllo totale e la sicurezza garantita non avrebbe mai potuto ottenerla, che la sua libertà sarebbe stata barattata quasi per nulla non lo capiva, facendo temere anche a Simone (che se ne era invaghito, per quanto fosse propenso a innamorarsi soltanto di quelle donne timide, che doveva lui spronare a non indugiare, per superare le loro dolci timidezze e lasciarsi andare per vivere senza vergogna l’amore) che si potessero creare delle pericolose derive totalitariste. La canzone preferita dalla bosniaca era un bravo italiano, dei The Zen Circus, intitolato “Ilenia”. Le piaceva così tanto questo nome che era diventato il suo nickname su Instagram (e quell’account per lei, considerando le ore che gliene dedicava, aveva davvero importanza). Dalinda ripeteva in particolare una strofa, in italiano imperfetto, che neanche si era mai preoccupata di tradurre: “Sono un po’ bestia un po’ danno  E vorrei vivere nuda  Sento il mondo con il naso  Odio avercelo tappato  Mi affeziono facilmente  Ma non ho voglia di spiegare  Che poi in realtà so anche parlare  Ma non si capisce bene  E quindi un po’ mi dispiace  Anzi non mi dispiace  Di averti conosciuto in un brutto periodo  Perché sei stato più bello  Hai brillato di più“. In qualche modo imprecisato e poco comprensibile, questo motivetto riusciva a farla entrare in contatto con sé stessa, a farle esprimere quanto concettualmente non riusciva. La potenza della musica che arriva a toccare delle corde nascoste nelle viscere, sfiorando il mistero più radicato che Dalinda desiderava nascondere anche a sé stessa ma che, allo stesso tempo, la affascinava e l’isolamento le lasciava per dei frammenti di secondo percepire, dandole modo di essere in quegli attimi una persona autentica e profonda, pur senza esprimerlo o potendolo sublimare in qualche maniera evidente.

Dalinda incuteva gioia e stava antipatica a Matilde. La sua esuberanza, la musica che riproduceva in camera ad alto volume, disturbando i vicini di stanza, non era tollerata da chi – a prima vista – potesse sembrare predisposta, per via dell’età, a legare maggiormente con lei. Superficialmente si poteva pensare le invidiasse la maggior bellezza, e in parte non è da escludere. Dalinda a volte ballava anche nei corridoi, coi suoi capelli lisci e biondi lasciati a ondeggiare, provocando un effetto talmente bello che neanche le onde del mare di Rio avrebbero potuto competere. Matilde in realtà avrebbe voluto avere la sua stessa vitalità e l’alterava il pensiero di non potersi continuare a godere il carnevale carioca. Si era convinta che il virus non esistesse, ne negava gli effetti non percependo alcun pericolo fuori dall’albergo. Arrivava a odiare chi tentava di farle cambiare idea, considerando il dialogo non come un confronto quanto un rimprovero, entrando subito in competizione con tutti. Le sfide che si creava da sola, ardeva assolutamente per vincerle nonostante per nessuno si fosse venuta a creare una sorta di lotta. Alzava così il tono della voce, si irrigidiva, diventava ingestibile, astiosa e insopportabile. Non era neanche più tanto in età infantile che si potesse pensare a un problema di scarsa maturità, per quanto essa non sia strettamente correlata all’anagrafe. Evidentemente, esasperava gli inevitabili fastidi presenti nella sua vita, evocanti incertezza, impossibilità di controllo e prospettiva sicura. Per sopperire a queste mancanze, in maniera innaturale e senza colpe, tentava di distrarsi per evitare di restare compressa nel peso che la angustiava, perdendo però tragicamente di vista le priorità che rischiava di compromettere. Dalinda non la capiva. Matilde le parlava di libertà, di lasciarla in pace e non coinvolgerla nella sua esuberanza perché voleva starsene da sola. La bosniaca cercava di farsi spiegare da Simone il motivo per il quale quella ragazza fosse così chiusa, ricevendo in risposta che era forse influenzata dalla società dalla quale proveniva, volta al tornaconto personale; avendo notato come Matilde potesse essere a convenienza qualora ne intravedesse il bisogno, cambiando completamente atteggiamento, mostrandosi affabile e cordiale. Dalinda intuiva come, senza dover dare spiegazioni a nessuno, Matilde si sentisse forte perché le sue scelte non potevano essere criticate e lei si sarebbe sentita legittimata a ritenersi dalla parte del giusto e della ragione. Dalinda la vedeva come un’analisi superficiale e non riusciva a darsi pace, convinta del suo concetto di libertà: dettato dallo stare insieme agli altri. Desiderava includere Matilde con intenzioni bonarie, per farla sentire più completa, coinvolta e anche in grado di potersi confrontare con sé stessa con più elementi, riconoscendosi attraverso un’attività partecipativa. Questo atteggiamento, su Matilde, creava un effetto devastante, facendola irrigidire, indemoniare, avvertendo come le volessero fare della beneficienza della quale non aveva alcun bisogno e avvertiva come un’umiliazione. La scozzese non capiva quando qualcuno le si volesse in qualche modo donare e lo odiava perché lei non era mai stata pienamente in grado di prendersi effettivamente cura delle persone care, per quanto lo esprimesse nelle intenzioni. La sua libertà sapeva quanto fosse fittizia, improntata soltanto sui propri interessi, su meschinità volte al sopraffare il prossimo per ignorare un bene comune, in favore del proprio, come dell’immagine fornita. Finendo col non piacere a sé stessa per le sue stesse mire, confusa e spronata soltanto a evadere.

Il signor Limbadi aveva preso a cuore Matilde, scrutandone un potenziale emotivo che voleva vedere in lei e non poteva di certo escludere. Questa ragazza lo affascinava e, al suo solito, tendeva a volerla come aiutare e consigliare a fin di bene. Rinfrancato dalle conversazioni con Simone, la riteneva una delle tante vittime del sistema capitalista, alienata e per questo in difficoltà a lasciar maturare quella propensione amorevole che l’avrebbe fatta vivere meglio. Il consiglio del “limpido” alla scozzese era quello di imparare a rimanere, a resistere, quando creato qualcosa di solido, importante e sentito, si sarebbero venuti a creare degli ostacoli. Matilde si sentiva in qualche modo difesa e protetta da quest’uomo, ne intravedeva le ragioni che però non finiva col cogliere pienamente fino a interiorizzarle, rimanendo sulla difensiva. Nella sua testa, quei discorsi sulle false illusioni promesse dalla società contemporanea, in termini di progresso che si disvelava come regresso, suonavano molto intriganti e attraenti. Stimava chi avesse un pensiero tanto convincente ed era ben in grado di esporlo, come chi mostrava una certa sensibilità e tentava di scrutarla, avvicinandosi alle sue fragilità. Allo stesso tempo però li invidiava ed era pronta ad accusare l’interlocutore di essere un odioso saccente, per non sentirsi così da meno ed evitare di parlare di lei. Faticava pertanto a imparare e prendere qualcosa di buono dagli altri e la infastidiva dover ascoltare come la deriva dell’umanità potesse essere la frammentazione tra le persone, che non riescono a porsi degli orizzonti comuni, assoggettandosi a un’esistenza frenetica, a ritmi serrati, che in tale rapidità sfavoriscono il ragionamento. Matilde si sentiva logorata esattamente da queste dinamiche e pertanto faceva di tutto per evitarle, da qui nascevano le sue sfuriate e l’assenza di un vero significato dietro le sue azioni. Rendersi conto di essere schiava del profitto di altri (anche in ambito lavorativo) e condannata a un consumo spasmodico per non pensarci, le faceva capire come non avesse nulla da poter davvero insegnare ai più giovani, come desiderava fare ad esempio con suo nipote che, come lei e tanti altri, gli sembrava un suddito della tecnologia, in grado di ripetere solo luoghi comuni inutili e banali. In quanto Limbadi le descriveva come falso, lei aveva posto la sua vita e infondo lo poteva anche trovare gradevole perché piuttosto confortevole. Questo era chiaro anche al signor Limbadi che tentava però di farla andare oltre, lasciandola accorgere di come restasse celata una dirompente tristezza che la illudesse di poter continuamente ricevere e pretendere, senza desiderare di dare. Continuava asserendo che la più alta forma di autorealizzazione esistesse nel condividere e, se fuori tutto è falso, intanto deve nascere da dentro sé stessi, nella solitudine che non viene soppiantata dalla socialità online della quantità, quanto soltanto nella ricerca del vero, dalla curiosità, dalla brama di creare, fantasticare, immaginare e generare che, in lei, Limbadi aveva ben visto fino a sentirsene trasmettere una buona dose aggiuntiva, anche in quelle poche interazioni avute tra i due. Matilde si sentiva lusingata ma a riconoscere il falso faticava e, per quanto potesse riuscirci, non era disposta ad accettarlo. Era come troppo inglobata in certi schemi, che come si fa per una merce ormai abbondantemente utilizzata, si preferisce buttare e sostituire con una nuova, piuttosto che tentare di ripararla e farla funzionare, anche per l’affetto che se ne possa istaurare. Questa tendenza la andava a ripetere con le persone, lontana da quel concetto di resistenza nel quale voleva farla confluire il signor Limbadi. La affascinava potersi sentire consapevole dei sacrifici svolti con una determinata persona, del piacere che comportasse la forza di superare momenti difficili per poi ritrovarsi sempre vicini e legati. Questa propensione però non le apparteneva, voleva essere più “moderna” e inglobata nelle dinamiche sociali dei suoi tempi, confluendo nel vivere nella fugacità, disimpegnata e volta ad andar via, piuttosto che a rimanere. Cercava stimoli distraenti, seppure allo stesso tempo invidiava le persone come il signor Limbadi, dotate della pazienza e la capacità di godersi lucidamente e consapevolmente ogni attimo, riuscendo ad assaporarlo con semplicità. Le ferite del passato non si rimarginavano, irrisolte continuavano a bruciare e si finiva col rimpiangere, nei momenti di chiarezza, come in sogno, quei momenti avvolgenti dove si era amato e sentiti amati. Matilde aveva capito che Limbadi si augurasse per lei una profonda unione, piuttosto che una mescolanza casuale, con un uomo che le avrebbe sempre lasciato il segno, intriso la difesa delle loro magnificenze insostituibili (che le sarebbero visceralmente mancate) e si esprimesse con lei con l’anima, ovvero lontano dalla deriva narcisistica, che le scattava quando si faceva prepotente, capricciosa e reazionaria senza considerare più per primi i sentimenti provenienti dal cuore, preferendogli scioccamente gli approvvigionamenti per il suo ego: il vero male dell’umanità, il fulcro di ogni ostilità, il vero grande virus da debellare.

Il signor Limbadi pensava che nessuno al mondo avesse delle vere e proprie colpe. Il centro di tutto considerava fosse poter stare bene con sé stessi. La mancanza di quest’essenzialità, poteva derivare da diversi fattori che avrebbero reso difficoltoso lo sviluppo della capacità di accogliere in sé, amando e lasciandosi amare come nella sua concezione avevano avuto un ruolo determinate le letture di Fromm e Frankl. Sull’argomento, il “limpido” si intrattenne una sera con Philip. Quest’uomo inglese, tifoso del City e cittadino di Manchester, sosteneva addirittura si potesse amare soltanto una volta, che coincideva con la prima effettivamente vissuta, tutto il resto non sarebbe stato che un maldestro tentativo di imitazione. La spontaneità del vivere quei sentimenti non poteva andare sostituita, a suo dire. Philip era un uomo molto creativo, pieno di inventiva. Considerava la vita di tutti meramente qualcosa che accade, svalutava i tentativi di identificazione e dava risalto soltanto all’interpretazione delle varie situazioni, nella capacità di attribuirgliene i migliori significati. Riusciva sempre a trovare il lato positivo di ogni avvenimento che, per quanto concerne il virus, aveva individuato nel tempo che poteva trascorrere vicino alla sua famiglia. Philip era provvisto di un carattere mite, che non lo faceva adirare per le limitazioni che stava subendo. Avrebbe voluto continuare a girare per Rio, non era certo arrivato in Brasile per stare chiuso in albergo. Pensava però a godersi i figli, come forse non avrebbe potuto fare vagando continuamente per quella metropoli che aveva visto tanto caotica, seppur variopinta. Lo consolava il poter essere lontano da una città grigia e tanto piovosa, quale la sua Manchester, e anche solo affacciarsi alla finestra lo rendeva più gioioso. Gli sembrava sempre giorno e cercava continuamente un modo per stupire sua moglie (come lei faceva con lui), senza dare per scontati i suoi affetti. In Matilde aveva visto qualcosa della sua prima fidanzata. Ricordava tutti i momenti felici e riservava un posto nel suo cuore per lei, il suo primo amore, seppur lontano e intrapreso nuovamente con una compagna pressoché perfetta con la quale, senza forzature o sforzi, riusciva a formare sensi esprimendosi in maniera del tutto trasparente e naturale. Philip voleva però riscattare quel primo e intenso amore e riuscire laddove non aveva completato l’opera con quella ragazza di cui aveva perso le tracce, anche se non aveva mai smesso di pensarla, convinto che anche lei facesse lo stesso. Matilde era la sua occasione, lei però si innervosiva già al primo accenno delle frasi perfette, coerenti e razionali di Philip. Il suo approccio gli sembrava del tutto gratuito e non richiesto. Capiva avesse ragione e questo la faceva imbestialire perché scoperchiava tutti i suoi difetti che avrebbe voluto tenere nascosti, mostrando solo la parte più bella di lei. La loro sembrava una lotta per affermarsi. Da una parte Philip, che se avesse avuto la meglio, pervadendo Matilde e trasmettendole la sua stessa tranquillità, avrebbe avuto la conferma del suo modo di essere come dominante e vincente a livello universale. Avvalorarsi di questo successo, avrebbe consolidato ulteriormente un uomo molto sicuro e saggio, che sicuramente sapeva quello che voleva e, una volta conquistato, non faceva altro che difenderlo, godendoselo in ogni istante. Dall’altra parte c’era chi però non voleva essere “salvata”, preferiva lasciarsi trascinare dalla corrente, in balia di sé stessa, pur di non far emergere quanto di “oscuro” infondo sapeva di nascondere e non avrebbe permesso di far uscire da sotto il tappeto. Matilde, confermando le impressioni di Dalinda, amava così isolarsi quando le si chiedeva troppo approfonditamente di aprirsi. Restando da sola, nel suo orticello privato, sapeva come sentirsi più forte e sicura. Philip non poteva fornirle quell’aiuto che desiderava, rivedendo una lotta già affrontata che non gli consentiva di togliersi la soddisfazione di trasmettere come unirsi completamente perché stupidamente sbarrato da un muro eretto dal non volersi sentire la parte debole, giudicata e bisognosa. Da un lato Philip si sentì quasi sollevato, ricordandosi dei tormentati momenti lontani che gli si generavano con quella ragazza che aveva tanto amato, dall’altra era dispiaciuto perché riconosceva come in tutto quel trambusto vi fosse qualcosa di unico, inimitabile e talmente potente che andava possibilmente affrontato come in una nave in piena tempesta che continua ad avanzare imperterrita dinanzi al mare in burrasca.

Matilde fuggì dall’interesse – quasi paterno – di Philip, buttandosi nel tentativo di conquistare Bernard, uno psicologo che aveva preso molto a cuore il problema della pandemia e mirava ad aiutare gli altri restando ad ascoltarli, nella speranza di non fargli patire troppo la situazione nella quale erano finiti. Bernard era convinto si stesse sottovalutando la portata dell’evento, come pensava già da tempo si stesse trascurando il mal di vivere che attanagliava le persone di tutto il mondo. Era certo che l’uomo si fosse troppo complicato la vita sul pianeta, diventando schiavo della tecnologia, anziché esser furbo da sfruttarla per il suo benessere, da intendersi ovviamente come collettivo. Gli interessi dei pochi, finivano col rovinare i molti. Portava spesso l’esempio dell’automazione, che migliorava certi aspetti lavorativi ma solo al fine del profitto dei più potenti che li sfruttavano facendo perdere il lavoro a tanti che non erano in grado di reinventarsi in un mondo dove le competenze diventano sempre più complesse e complicate. Matilde era molto affascinata dallo psicologo dai modi molto dolci e un carattere mite. Iniziò così ad assillarlo, riempiendolo di attenzioni. Un vero bombardamento d’affetto che fece breccia nel cuore di quest’uomo single che aveva tanto da dare, potendo realizzare l’interesse di Matilde di sentirsi ben voluta e amata. Bernard la faceva sentire importante, con i suoi pensieri e gesti carini, volti anche a tollerare qualche comportamento scorbutico di lei. Lo psicologo la giustificava addicendo allo stress affrontato da una situazione sicuramente inusuale, avvalorata dal trovarsi in terra straniera. Tra i due durò poco, con Bernard che capì come la presenza di quella donna nella sua vita potesse rivelarsi tossica, in considerazione dell’insistente pensiero rivolto nei suoi riguardi, verso il quale lei si rispecchiava continuamente, disinteressandosi di poter dar effettivamente qualcosa, rimanendo per natura concentrata su quanto potesse trasmettere all’esterno di transitorio, curiosa dell’opinione suscitata, con la voglia che fosse sempre incredibilmente positiva. Bernard tentò un approccio semi professionale nei confronti di questi atteggiamenti che aveva potuto osservare da vicino, innescando delle ire che non riuscì a sopportare, rendendosi conto di quanto non potesse intervenire laddove non era richiesto alcun aiuto e si sarebbero reiterati dei comportamenti a lui non affini. L’unica vera e grande ambizione di Bernard era poter aver figli, ai quali insegnare l’unica cosa che secondo lui contasse: l’amore. Nello specifico, pensava servisse educarli lasciandoli liberi per facilitare le loro capacità di immaginazione, atte al trasformare la realtà in sogno. Per trasmettere questa sorta di magia, sapeva di aver bisogno di una donna con la quale istaurare un rapporto che volgesse da esempio. Con Matilde, a volte riusciva a trovare talmente tanta dolcezza da potersi rivolgere a ogni cosa con passione, in altri frangenti questo coinvolgimento però scompariva, soppiantato da campanelli d’allarme che gli lasciavano la sensazione di non poter generare quel clima sperato, fatto di dialogo continuo e radicato, nel quale poter far crescere un bambino.

Negli ultimi giorni di reclusione in albergo, prima che si allentassero le misure prese per contenere la pandemia e venisse sospesa la zona rossa a Rio de Janeiro, Bernard familiarizzò con Esmualdo, tentando di includere pure Demon con cui aveva stretto amicizia. Lo psicologo aveva ascoltato Demon confidargli delle sue tante storie d’amore, dalle quali si era allontanato lui per primo. Per scherzo, Bernard lo chiamava il “distruttore” e temeva che Esmualdo potesse scoprire il suo metodo di evasione dall’Hotel, che nel tempo aveva attuato quasi giornalmente per uscire e andarsene anche soltanto in spiaggia a fare una passeggiata di nascosto, per poi rientrare senza farsi vedere, se non da Bernard a cui lo aveva confidato chiedendogli di tenere il segreto. Demon aveva la necessità di placare il suo senso di irrequietezza, al punto che anche quando rimaneva in albergo era solito giocare da solo, contro un muro, a tennis. Colpiva la palla con rabbia, non lasciando riposare nessuno. Quel che odiava maggiormente era rispettare le regole, piegarsi al volere di qualcun altro. Per quanto fosse odioso, infondo tutti lo tolleravano e gli volevano bene. Compresi Marcos ed Esmualdo che gli somigliavano e generalmente cercavano persone differenti. Demon era molto umano, aveva paura di isolarsi. Necessitava degli altri e provava a far restare tutte le persone vicine, per quanto il distanziamento sociale fosse consigliato, per evitare la proliferazione del virus. Ripeteva che avrebbe preferito ammalarsi, ma anche morire, restando al fianco degli altri, in compagnia, che vivere separato, senza potersi confrontare e mischiare con altre individualità. Si divertiva ad accusare Dalinda di essere una conformista, che criticava alcune mode soltanto per sentirsi alternativa, uniformandosi a sua volta a una tendenza diffusa. Il suo obiettivo era creare un trasporto emotivo con quella bella bosniaca, provando a prenderla in giro per avvicinarla e dar sfogo alla sua attrazione fisica. Non riuscì ad annoverare anche Dalinda tra le sue conquiste, per via dell’idea che lei si era fatta di lui, come di Esmualdo. Li vedeva come degli egoisti con manie di grandezza che non avrebbero mai volato troppo in alto. Demon era per lei un attore e, risentita da quanto le dicesse in quanto permalosa, gli rispondeva seriamente chiedendogli quali fossero invece i suoi sogni che non provenissero da copie di altri sognatori. Si era fatta suggerire questa risposta da Simone, che l’ultimo giorno di “reclusione” in albergo, insieme a Limbadi, preparò un discorso per salutare quei compagni di quarantena, i quali si erano ormai reciprocamente affezionati tra di loro.

“Noi crediamo che il mondo ci ami, che la natura abbia a cuore l’intera umanità. A volte pensiamo il contrario ma non ci rendiamo conto quanto possiamo essere urtanti, dar fastidio al pianeta che ci ospita e che il suo ribellarsi sia sempre a fin di bene, indirizzato a limitare i gravi errori e danni che noi uomini commettiamo al suo interno”. In questo modo esordì Simone, lasciando spazio a Limbadi per il proseguo, dopo aver attirato l’attenzione di tutti. “Noi uomini non vogliamo approfondire, non interpretiamo i segnali, se non svogliatamente. Il mondo è stanco del nostro menefreghismo, della nostra prepotenza nel tentativo di sovrastarlo. Siamo interconnessi tra noi, come con lui. Lo vedete come si protrae il contagio? Non ve ne frega nulla di quanto avviene lontano da casa vostra? Ci vuole poco a notare come chi inizialmente trasmetta il virus in una lontana zona tanto snobbata da noi, nel giro di pochi contagi, entri nella nostra abitazione tramite una persona cara! Non possiamo star bene senza gli altri, se non lo sono anche loro e se tutti insieme non ci curiamo del pianeta. Se guardassimo bene, noteremmo come ci lasci sfogare ma potrebbe annientarci in qualunque momento, preferisce farsi male ma saprebbe come reagire e spazzarci via tutti. Noi siamo esseri fragili e il mondo prova a tutelarci, a renderci felici, a proteggerci e prendersi cura di noi, tenendoci al sicuro in casa sua. A volte però esplode, si infervora e deve necessariamente scoppiare, non può consentirci continuamente di calpestarlo. Il mondo prova a esaudire ogni nostro capriccio, conosce l’individualismo che ci caratterizza e lo accetta anche quando non gli piace. Si rende conto di quanto siamo incontentabili ma continua a porci ascolto, a volerci ospitare fedelmente e con sentimento. Vorrebbe soltanto riconosciuto il significato che attribuisce a tutti i suoi sforzi ma in ogni caso continuerà ad accontentarsi degli attimi d’amore che l’umanità certe volte dimostra, anche se in maniera sfuggente e col passare del tempo sempre meno avvolgente e conscia del presente. Il nostro debito verso il pianeta è impagabile, non siamo capaci di prendercene cura, lui così continua a risplendere ma di luce propria, la quale al massimo incentiviamo con le nostre continue e assillanti pretese cieche. I gridi di attenzione, riconoscenza, rispetto e fiducia, li ignoriamo, anzi ci infastidiscono. Finiamo con l’approfittarci del mondo, costringendolo a sottostare ai nostri giochi, anziché formare con lui un orizzonte comune. Siamo semplicemente stupidi! Ci basterebbe accettare la verità, capire le priorità, per vivere con spensieratezza, emozione e trasporto nel divenire con il cuore pieno e impegnato. Il mondo ci urla di restare uniti, ci rimane vicino, ci accoglie, ci capisce. Avvertiamo la sua lungimiranza, la dovremmo solo seguire. Il suo timore più grande, sono certo sarebbe quello di vederci sbandare nonostante il suo amore, per rendergli impossibile tenerci saldi intorno al suo avvolgente abbraccio, col rischio di doverci rifiutare se dovessimo rovinare tutto per poi tornare troppo tardi da lui finalmente consci. Gli errori si pagano, hanno un prezzo, la comprensione deve arrivare prima della compromissione. Dovremmo essere inermi con lui, farci accudire nel suo habitat che favorisce la nostra vita e libera espressione, scarna di ingerenze esterne e inclini alla radice che manifestiamo quando sembriamo tornare bambini. L’umanità è infinitamente difesa, considerata speciale ed è assurdo che debba crearsi finzioni, sotterfugi, nascondigli e distrazioni nei confronti di chi ha tutto da darle. Dovremmo smetterla di trascurare chi è in noi, continuamente sarà fonte di gioia perché ne siamo interdipendenti. Il mondo non può stare senza di noi, non avrebbe brio, ma neanche noi possiamo fare a meno di lui per quanto amore ci dona. Il modo in cui lo miglioriamo (perché in questo vi riusciamo) è dettato dalla sua individuale capacità di mutare per soddisfare le nostre aggiuntive pretese. Potremmo farlo arrivare ai cambiamenti con più dolcezza, meno irriverenza, forse ci vorrebbe di più ma lui sarebbe più felice e lo merita davvero. Dobbiamo stare attenti al futuro, non è difficile essere lungimiranti, è palese che senza di lui saremmo persi, ci penseremmo sempre senza trovare alcun miglioramento. Nessun altro habitat potrebbe amarci così tanto e risultare più affine per la nostra vita! Ognuno di noi non può ignorare il richiamo allo smettere di aver paura di esser contraddetto, di non specchiarsi interiormente per bramare potere e indursi a spogliarsi, dilaniarsi, lasciarsi vedere come un miserabile quale chiunque è per natura. Il mondo ha capito che non può più essere comprensivo con noi, che non capiremo mai, reiterando sempre gli stessi errori e comportamenti”.

Matilde si sentiva tanto parte dell’umanità, in questa descrizione. Philip piangeva, lui forse si sentiva come il mondo. A sua moglie, che tentò di sincerarsi delle sue condizioni emotive, rispose che temeva come il mondo avesse ormai deciso di andarsene, che non c’era nulla da fare con gli umani. La moglie aggiunse che forse aveva ragione, il mondo ci amerà sempre, ci terrà a cuore, spererà che sopravvivremo pur pensando che non sarà così. Lui è pronto a ospitare una nuova specie, si rigenererà più bello che mai. Gli mancherà l’uomo, lo ricorderà con profondo affetto e nessuno mai lo sostituirà pienamente per via di quelle prime e forti sensazione provate. Il mondo però continuerà a vivere, lasciandosi alle spalle l’umanità per quanto gli sia più affine, comprensivo e capace di ricambiarlo e sostenerlo. Philip guardò la moglie e l’abbracciò fortissimo, si sentiva capito, aveva il dubbio se anche lei stesse parlando unicamente di loro due, del loro rapporto d’amore oppure se era riuscita rocambolescamente a trovare le parole giuste pensando a quel discorso astratto di Simone e Limbadi. In quel preciso momento, quell’intesa mentale che aveva superato ogni limite, gli fece render conto che si poteva evidentemente amare anche una seconda volta. Trovò così la forza, tra l’emozione, per rispondere che il mondo sarà col tempo capace anche di apprezzare la nuova specie come e forse anche più di quanto fatto con gli esseri umani, verso i quali avrà sempre un debole ma anche un ricordo veritiero.

Quell’albergo, da prigione, si era tramutato in paradiso. Ognuno aveva avuto modo di conoscersi più a fondo, grazie alle relazioni con gli altri coi quali era rimasto bloccato. Tra tutti loro si era creata una forte complicità, che si sarebbero portati dentro per il resto delle loro vite. Fuori dall’albergo, i brasiliani erano tornati a popolare le strade, come le spiagge. La voglia di libertà era evidente nei bambini vogliosi di divertirsi, giocare, dar sfogo al loro estro, rincorrendosi e calciando un pallone. Nessuno a Rio sarebbe stato più disposto a rivivere un nuovo lockdown e questo lo intuì anche il governatore, costretto a tornare sui suoi passi e a migliorarsi come individuo, cambiando politiche, accettando il rischio, parlando col cuore al suo popolo di quanto potesse esser bello l’imprevisto. Un inno al loro spirito carioca, contornato da sensazioni vere, pure, autentiche. Per vivere in società, dei paletti sono necessari ma turisti e cittadini di Rio avevano imparato come non fossero disposti a rinunciare più di tanto alla loro libertà, in cambio di controllo e illusione di sicurezza.

Negli anni a venire, il Brasile diventò esempio virtuoso da seguire per la salvaguardia e sostenibilità del pianeta. Col sorriso, tutti coloro che avevano ascoltato Simone e il Signor Limbadi, li consideravano i precursori di questo successo. Si erano rivelati lungimiranti e avevano preparato al meglio i loro cuori al cambiamento. Il mondo ringraziava il Sud America, premiando il suo stile di vita donandogli un clima mite, con caldo prolungato e accettabile, senza violenti temporali sporadici, evitando il rischio di desertificazione, aridità e scomparsa del verde. Lo stesso dolce destino sorrise alla penisola iberica e al meridione d’Italia, dato pochi anni prima a rischio di sprofondare nelle acque, col pianeta intenzionato a riprendersi la terra attraverso il mare. Questi cambiamenti improvvisi furono molto strani, come se effettivamente il mondo avesse coscienza, decidendo di ribellarsi contro quelle zone con abitudini folli, di estremizzazione occidentale, come anche alcune parti del continente asiatico sulla stessa scia capitalistica americana, quali gli Emirati Arabi, Singapore e la Corea del sud, con la loro tendenza a volersi prendere il ruolo di Dio, creando dove non fosse possibile strutture del tutto innaturali, facendo dell’artificio un marchio di fabbrica, potenza e prepotenza, forti del denaro e dello sfruttamento dei deboli per i loro fini sfarzosi, che stupidamente andavano ad affascinare anche coloro che vi si recavano per stordirsi attraverso quanto gli occhi potessero vedere, dimenticando quanto il cuore potesse sentire. Gli esseri umani vennero in qualche modo premiati, col mondo che andò a dimostrare come apprezzasse l’umanità ancora pressante in quei luoghi colmi di cultura, dove restasse qualcosa dentro, fino ad avvertirne uno smisurato senso di nostalgia. Quella “saudade” (la cui scritta si tatuò Matilde, abile nel conservare il passato per vivere il presente senza la pressione del futuro) riuscì, lasciandola guardare dentro di sé, a far continuare alla scozzese la sua vita senza più cedere all’egemonia del suo ego, affrontando tutto col suo animo nobile e strabiliante, capace di coinvolgere ed emozionare chiunque intorno a lei.

I successi dal punto di vista lavorativo, condussero Matilde a grandi scoperte in ambito scientifico per la cura di gravi malattie. La sua serenità a livello individuale, l’attrarre persone per sapersele finalmente tenere, proiettandosi nel darsi completamente a loro, distante da un approccio mercificante, narcisista e alienante, l’aveva spronata a restare anche più vigile sul lavoro, con conseguenti risultati brillanti, ottenuti peraltro nei piccoli laboratori di provincia dalla sua casa in campagna, lontana da Glasgow, come dal resto del mondo, considerato più produttivo e con maggiori stimoli, risorse e possibilità di slancio. Matilde, entrando in contatto con la sua interiorità, riuscì ad accorgersi dell’eccezionalità del momento presente, amando ogni semplicità. Le azioni, che provocavano una reazione, non erano scontate e anche la più banale divenne apprezzabile per questa ragazza che si rivolgeva alla vita lentamente, con dolcezza, pronta a trarne ogni frutto. Il suo era diventato un mondo fatato, ideato a partire da una sera in particolare dentro una vasca, mentre fuori nevicava. Anche quando non in grado di far caso al piacere intrinseco in ogni sfumatura, per la capacità di lasciarsene assorbire (fino al non poterci pensare) otteneva lo stesso risultato che le donava consapevolezza e pace. La ricchezza raggiunta grazie alle sue scoperte in campo scientifico, indusse Matilde (che arrotondava producendo dei fumetti magnifici) a investire a Rio de Janeiro, la città che l’aveva cambiata e laddove vigevano tra le migliori condizioni di vita dal punto di vista più importante naturalistico e meteorologico. Essersi sentita l’umanità, in quel discorso sul mondo, l’aveva profondamente turbata e in seguito consentito di rafforzarsi. Il mondo l’aveva amata e lei voleva tornare da lui. Sapeva potesse essere troppo tardi, il tempo chiarisce tutto ma quanto ci si impiega può rivelarsi fatale. Restare, resistere e difendere è la più grande forza che consente di avanzare sentendo più nitidi i sentimenti, pertanto ricucire un qualche inevitabile errore non è sempre possibile. Matilde era arrivata alla sua verità, in sintonia tra cuore e mente, e di per sé questa consapevolezza la rendeva straordinariamente felice, viva e in grado di affrontare la vita nella miglior misura. Traeva piacere nello stare con sé stessa, sapendosi rapportare con amore a ogni vicenda. Aldilà di chiusure che non poneva più, era profondamente libera, coraggiosa, avvezza a novità. Non idealizzava e non innalzava a monumenti concetti come tradizioni e altre astrattezze, ritrovandosi nella posizione di esser capace di poter offrire il massimo sia emotivamente che a livello pratico. Matilde ormai sapeva come seguire il suo cuore e permanere nella scelta. Ogni risorsa e strumento era ormai nelle sue corde per fare la sua parte con indipendenza e voglia di profonda unione. Sprigionava quotidianamente energia e passionalità, tenendo saldo il ricordo del mondo e di tutte le persone che nel corso della sua vita si fossero comportate in quel modo con lei. Aveva voglia di riabbracciarle, di poter regalar loro dei momenti di gioia, ponendosi disinteressatamente, come mai potesse essergli accaduto. Custodiva forte in cuor suo ogni buona azione ricevuta, con la determinazione di crearne molte altre. La lezione più grande che aveva imparato era riuscire a scacciare l’alieno che aveva dentro di sé. Lo chiamava così e lo riconosceva dentro qualunque essere umano, con chi in grado di dargliene più o meno spazio. Tenerlo a bada, non farlo comandare, significava porsi con delicatezza, ragionando e agendo con l’anima senza esser preda di facili nervosismi dettati da orgoglio e presunzione. Matilde aveva imparato a chiedere scusa, a riconoscere i suoi errori e limiti, traendone grande forza e conservando allo stesso tempo il suo bisogno di dolcezza e desiderio di attutire la fragilità ponendosi con tanto amore. Organizzò così una rimpatriata che in passato avrebbe odiato, rifiutandone ogni invito se proposta da altri. Stavolta si sentiva disponibile e felice di confrontarsi, dedita al far risplendere le amicizie senza invidie o facili critiche. Il suo farsi voler bene, aveva adesso tutt’altro gusto, si riferiva semplicemente a regalarsi e regalare reciprocamente momenti di gioia. Ci teneva, ne era intimamente grata e nessuno avrebbe potuto ricevere visite più disinteressate e assorte nell’affetto e comprensione, di quelle che era in grado di poter offrire lei. A partire da Philip e Bernard, contattò tutte le persone di cui aveva conservato un recapito, tra coloro i quali aveva condiviso il lockdown in quell’albergo a pochi passi dal lungomare di Copacabana.

Rispose assente soltanto il Signor Limbadi. Simone, comunicò a tutti che era morto e ne portò con sé i suoi libri, che aveva ricevuto per posta. Le poche copie erano in possesso della famiglia Limbadi e di alcuni cari amici intimi, coi quali aveva desiderato condividerli, chiedendo loro di tramandarli da generazione in generazione, tra persone vicine, disinteressato alla ribalta di un pubblico più vasto. Simone duplicò quei testi che – con le medesime prerogative – diede a ognuno presente a quel raduno, certo che il signor Limbadi avrebbe gradito l’estensione delle sue idee a quella gente che aveva voluto bene, entrando in confidenza e intimità emotiva con loro. Simone, dal canto suo, aveva continuato a portare avanti la sua scelta di tenersi distante da quel lavoro alienante che aveva avuto il coraggio di abbandonare. Era riuscito a non pentirsene, vivendo una vita a ritmi più lenti, felice di potersi godere ogni attimo, una volta trasferitosi alle Isole Azzorre e aperto un Home Restaurant, insieme alla sua donna con la quale condivideva quello stile di vita: liberi da desideri proiettati al futuro e immersi nella felicità interpretabile in ogni ora vissuta insieme, anche quando in luoghi diversi. A lei spesso parlava del Signor Limbadi, ripetendo allo sfinimento quanto fosse stato un incentivo per lui nel continuare a perseguire la sua decisione, una volta che l’input fosse partito dal cuore, come lui stesso faceva con i suoi scritti, che tanto lo appassionavano, lasciandogli condurre una vita improntata sul resistere a ogni avversità continuando sulla strada tracciata, che aveva in un primo momento sentito la più affine al suo modo di essere.

All’incontro, Demon corse subito ad abbracciare Bernard, raccontando lui che non era più un distruttore e che lo era stato per capire che poteva, dalle macerie, farsi edificatore. Si era sposato con una ragazza incontrata al circolo del tennis, dove aveva iniziato a recarsi sempre più regolarmente, riprendendo una passione del passato che era tornato a coltivare in Brasile, pur giocando da solo contro il muro. Lei, senza chiusure mentali, insicurezze o inabilità, gli consentiva di stare allegramente insieme agli altri e gli aveva fatto trovare l’amore. Con la moglie scoprì – attraverso la dolcezza di lei che amava principalmente riempirlo di baci – come il sentimento nato con calma e purezza, riuscisse a regalargli anche orgasmi più intensi, che non aveva mai sperimentato con le sue conquiste precedenti, di donne magari stupende ma interiormente meno piene di sentimento della sua amata tennista, con la quale davano adito a partite sempre molto equilibrate, come se i loro incroci fossero perfetti e sempre sulla stessa lunghezza d’onda. Bernard si compiacque per l’amico e ancor più per quanto le trasmetteva adesso Matilde. Non c’era in lui gelosia o voglia di riconquistarla, quanto pura soddisfazione, come se si fosse realizzata sua figlia. Era profondamente felice e orgoglioso di lei. La vedeva raggiante, finalmente inclusiva anziché scontrosa. Lei gli aveva riferito che si era stretta intorno alle emozioni passate che l’avevano fatta sentire effettivamente innamorata. Si rendeva conto di aver perso di vista questa via, concentrandosi da quel momento a dedicarsi a tutto con passione ed entusiasmo, preferendolo al sentirsi piuttosto amata. Il suo errore credeva fosse stato aver trascurato le scelte operate con tutto il cuore, senza saperle correggere lungo il percorso, lasciando subentrare quanto ormai era brava a tenere ben lontano. Vi era riuscita ricordandosi come in qualche occasione – spinta da tanto amore – avesse compiuto passi enormi per i quali ci sarebbe stato più da faticare ma che voleva immediatamente raggiungere. Bernard aveva gli occhi lucidi, ascoltarla lo aveva emozionato e compiaciuto a dismisura, credeva che se esistesse una persona ormai incapace di mentire, fosse diventata Matilde. Pure lui era onesto e restio nel proclamare bugie ma specialmente lontano da un approccio dettato dal tutto e subito bramoso di possesso, trovandosi soddisfatto a livello personale per l’aiuto fornito ai suoi pazienti susseguitisi nel corso del tempo e la conferma della sua idea – tante volte ripetuta a Matilde – di dover imparare a spingersi cartesianamente in avanti attraverso la razionalità che c’è al principio di quando si imbocca un determinato sentiero. Lui si era comportato in questa maniera in ogni ambito della sua vita e trovarne conferma da chi rimaneva il suo tormento in quanto a contrarietà di questa visione, gli aveva donato una pace interiore forse mai riscontrata prima d’ora. Bernard non ebbe figli, capendo soltanto in quel momento come Matilde sarebbe stata la donna ideale per lui. Lasciarla andare, per quanto inevitabile, celava un modo per difendere sé stesso, non allontanandosi dalla sua professione mal pagata quanto però da lui amata, sentendosi incapace di poter garantirle quanto sentiva doverle per viziarla come agognava. Rifiutato quel cambiamento troppo grande per sé stesso, non volle evidentemente saperne più di nessuno per la quale sacrificarsi, impegnandosi a dismisura in una solenne promessa d’amore. La sua chance di crescita era sfumata a Rio. Nella vita riuscì comunque ad accettare quel cambiamento tra ambizione, programmazione e aspettativa, dettato dal desiderio di diventare padre con quanto gli fosse effettivamente accaduto, riuscendo a interpretare al meglio la realtà formatasi dalle sue esperienze, prendendo la vita nella giusta misura, senza restarne auto travolto a causa della sue psiche.

Il più diverso era forse Orlando. L’eleganza con la quale erano tutti abituati a vederlo, l’aveva abbandonato ed era adesso più solare e raggiante. Orlando si era dato alla pittura e aveva girato in tanti paesi diversi per presentare le sue mostre. Aveva speso gran parte delle sue energie su quest’arte che lo faceva sentire vivo. Sul lavoro aveva perso i gradi gerarchici che si era conquistato in tanti anni di sacrificio e si sentiva meglio con minori responsabilità, una retribuzione più esigua ma ben più tempo libero e una cerchia di ammiratori del suo genere di nicchia che lo facevano considerare apprezzato e continuamente ricercato. Sorprese anche rivedere Alves de Souza, lo stregone brasiliano era ancora vivo nonostante avesse superato i 100 anni di età. Parlò poco in occasione del raduno ma sembrava ancora molto vigile, lucido e attento osservatore intorno a lui. Ricevette molte attenzioni e la sua fama a Rio era aumentata, in pochi erano forse stati più benvoluti di lui nell’arco della loro esistenza. Alves, con le lacrime agli occhi, venne a un certo punto avvicinato da Marcos che capì come volesse esternare la sua emozione e si sentisse ormai pronto anche a morire, dopo aver visto tutti loro più forti perché consapevolmente fragili. Lo riempieva di gioia notare come quel gruppo si fosse dimostrato forte, coeso e unito, uscendone reciprocamente migliorato da quell’esperienza comune. Avvertiva che quanto aveva dentro e voleva trasmettere loro era stato recepito da ognuno, sentendosi sinceramente grandioso e dai poteri magici che non era neanche in grado di comprendere, ancor meno di spiegare ma dai certi risultati perché beneficiato da questa enorme fortuna che gli aveva fatto spendere la sua lunga vita come meglio non avrebbe potuto, anche lui ligio alla sua scelta portata avanti con tanta passione e benevolenza nei confronti di tutti gli esseri umani incontranti nel corso del suo cammino.

Marcos si rendeva conto di quanto la comunanza con queste persone, vissuta in quell’hotel, fosse stata davvero significativa e formativa per tutti loro. Lui si sentiva quello meno influenzato perché già conscio della sua missione. La vocazione interiore che avvertiva, l’aveva sempre ascoltata, lasciandogli ampio spazio, senza reprimerla. Si sentiva un vincitore perché, in un modo o nell’altro, era sempre riuscito a farsi rispettare non lasciandosi sottomettere, colonizzare e rubare il suo tempo, vivendolo come lo faceva sentire libero e di conseguenza innamorato della vita: propenso a ben relazionarsi con gli altri, risultando sempre propositivo. Il suo rapporto con Esmualdo era notevolmente cambiato, i due ormai erano diventati come fratelli, smussando le parti dei loro caratteri che nell’affinità li rendevano insopportabili l’uno per l’altro. Esmualdo si era innamorato di una donna ben diversa da lui, alla quale aveva insegnato a modo suo a vivere in maniera più passionale, lasciandola andare come non aveva mai fatto. Lei era riuscita invece a dargli una regolata su altri aspetti, rendendolo un uomo più organizzato e in qualche maniera stabile. Un incontro tra apollineo e dionisiaco che funzionava nonostante i tanti litigi, per la mescolanza che andava a completare vicendevolmente nel suo singolare eccesso. Una ricetta vincente che anche i più simili e affini dovrebbero sforzarsi di concretizzare, equilibrando l’ago della bilancia anche verso quella diversità che nella vita ha un valore intrascurabile.

Al raduno si presentò anche Giovanni, che ricordò il signor Limbadi con la sua narrazione immaginifica sulla moglie del governatore brasiliano. Saldoao non era più al comando della nazione e aveva scritto un libro dove chiedeva scusa alla popolazione per i suoi comportamenti dell’epoca, pentito di certe scelte. Vi era anche un capitolo sulla vita personale, delineando dei tratti caratteriali della sua donna molto simili a quelli che era andato a immaginare Limbadi. Giovanni ci tenne a farne riferimento, esaltando la mente brillante di quel suo amico, al quale si era particolarmente legato, insieme a Simone e tutti gli altri, nel corso del lockdown. Il carattere della signora Saldoao, determinata a resistere e rimanere vicina al marito, si era infine rivelato determinante per il pentimento del governatore che, ancora in carica nel corso del suo mandato, aveva completamente cambiato mire, quando il gruppo dell’albergo si era ormai diviso. Al prete si confidò Dalinda, che si era sposata con un intellettuale e compositore di colonne sonore per film. La sempre bellissima donna bosniaca aveva trovato il suo equilibrio e la sua vena artistica, divertendosi anche lei a dipingere astrattamente sulle melodie suonate dal marito. Trascorrevano così tanta parte del loro tempo in mansarda, dove avevano adibito uno studio per dar sfogo ai loro hobby complementari, liberi da controllanti schemi impositivi. Giovanni si rese improvvisamente conto di come tutti si fossero trovati difronte a un aut aut (per dirlo alla Kierkegaard) riuscendo a scegliere nella maniera più logica, sensata, razionale e specialmente sentita, per portare avanti le loro decisioni iniziali, senza ripiegare stupidamente alla prima difficoltà, ormai certi dell’inevitabilità degli ostacoli e la bellezza del resisterne, continuando ad avanzare nella direzione prescelta, consci del vero sale e piacere della vita che dà adito a momenti più emozionanti proprio per l’emergere dai periodi complicati. Avevano messo tutti al centro l’amore da condurre in avanti con coraggio. Sullo stesso filone si vedeva pure lui, con la fede, la cui scelta contemplava inevitabilmente delle rinunce. Nessun uomo può decidere qualcosa che non significhi automaticamente escludere tutte le altre infinità di alternative possibili. Viviamo scommettendo e risulta forte colui che continua a perseguire, a resistere, a investire sulla sua lungimiranza, a ricordarsi di come ha scelto seguendo sia mente che inflessibilmente il cuore. Giovanni si sentiva un uomo coerente, come vedeva questa peculiarità anche in chi finalmente era tornato ad attorniarlo. La migliore loro qualità, che davvero li accomunava e riferì singolarmente a ognuno, era soggetta al saper servire il prossimo (come affrontare le imprevedibili e spesso impreviste circostanze), a saperlo quindi veramente amare, accettandone difetti e problemi. Servire Dio anche per lui era a volte una croce ma riusciva a trovarne sempre rinnovato slancio e quel sacrificio si trasformava in desiderio, lontano dalla sete di possesso e mira futura, quanto di beneficio istantaneo. Alcuni tra i presenti erano cambiati nella dimensione in cui una volta, alla prima bruciatura, avrebbero preferito fuggire, evitare, eludere il “fuoco” anziché smettere di cambiare e tentare di sostituire in balia dell’assenza di valori, per finalmente capire che nel perdurare e affiancare chi si accetta e col quale si resiste, vi è un futuro roseo. Giovanni lasciava anche spiragli per il cambiamento, da abbracciare qualora la situazione si dovesse far disperata, rinnegando la decisione alla base. Questa condizione andrebbe però ben riconosciuta con l’assenza di sentimento e non confusa con le condizioni che diventano (prima o poi inevitabilmente) sfavorevoli. Le belle storie di vita sono struggenti, non comode. Questo era forse il messaggio universale da inviare ai giovani, assoggettati a una società basata sul consumo che nulla ripara e tutto cambia alla velocità della luce, nell’attaccamento di un’aspettativa lontana e subito insoddisfacente (sempre se realizzata), senza rendersi conto di tendere all’infelicità certa.

Philip, nel rivedere tutti, era forse il più emozionato e commosso. In particolare, si soffermò su Matilde, con gli occhi lucidi, fiero di lei. Adesso non vi era più spazio per quella sorta di lotta per la ragione, tutto era interamente dedicato a una dose sproporzionata d’affetto. I due infatti si abbracciarono forte, per separarsi soltanto dopo un tempo che parve infinito agli altri, quanto limitato per loro. Il cambiamento di Matilde, non dava più alcuna possibilità di far ergere qualche difesa nell’uomo inglese, convogliandoli così nel trasmettersi reciprocamente tanta umanità assorta in una benevolenza e vicinanza inspiegabile per l’affinità che i loro modi di essere riscontravano. Philip sentiva di poter essere completamente onesto e le sue verità finalmente conciliavano precisamente con quelle di Matilde, che lo anticipò pur senza parlare, attraverso un sorriso che lo rese pienamente certo e consapevole dei suoi pensieri, rivolti all’allontanamento definitivo di quel vortice che l’aiuto lo rifiutava, non includendo pienamente in sé come a volte lasciava presagire di poter fare nella maniera più preponderante che si potesse concepire. Dagli apici più eclatanti, a dei bassi che finissero sotto terra, Matilde aveva effettivamente raggiunto una certa linearità che alimentava l’approdo a quelle vette ai più inesplorabili senza scendere al di sotto di uno standard dovuto alla sua ritrovata serenità interiore, come quando era una piccola Cenerentola nelle recite scolastiche. Philip, scherzando, le disse che tutta l’evidente forza che aveva trovato (e pensava di aver perso) non lo traeva in inganno, considerandola sempre la petulante ragazzina dentro quell’albergo. Matilde, col sorriso sul volto e una forte emozione interiore, gli rispose riuscendo a trattenere a stento qualche lacrima di commozione. Finalmente si sentiva anche lei il mondo, piuttosto che l’umanità, riconoscendo a Philip di esserlo sempre stato. L’uomo la guardava affascinato, fiero e profondamente felice. Facendosi serio, le confidò di averla sempre pensata, come se fosse stata un fantasma vicino a lui, una sorta di angelo custode, aleggiante in ogni singola giornata trascorsa. Matilde lo capiva bene, per lei era stato lo stesso. Avrebbe voluto ricominciare da zero, una volta finito quel periodo trascorso a Rio durante la pandemia, capì però che sarebbe stato ancora meglio avanzare – anziché tornare indietro – memore degli insegnamenti che ebbe modo di trarre. Si ritrovò per questo motivo piena di coraggio nel liberarsi di circostanze anche comode ma che non la convogliassero al meglio con tutto il suo cuore, per immergersi in quanto le fosse immensamente avvezzo e incline. Un tassello che le mancava, poteva finalmente esaudirlo. Ci teneva, come aveva fatto con molte altre persone appartenenti alla sua vita, a poter finalmente dire anche a Philip come fosse stato importante per lei, aiutandola a imparare ad alimentare, difendere, amare e omaggiare le relazioni, in una maniera tale che lui non aveva idea di avergli trasmesso. I collegamenti che si possono fare, osservando i comportamenti e le interazioni con gli altri, sono sempre misteriosi e questo venne colto con particolare gioia da Philip. Anticipandola, le chiese se potesse cercare lui le parole che le immaginava dentro. Matilde acconsentì, felice e certa che avrebbe ascoltato qualcosa che l’avrebbe fatta sentire pienamente compresa. L’ascolto infatti non la deluse, sentendosi dire che sarebbe potuta essere qualsiasi persona avesse desiderato diventare, attraverso le sue capacità e diverse intelligenze, con quella emotiva al centro di tutte, che solo i ciechi potevano non vedere, anche quando lei faceva di tutto per oscurarla. Philip continuò asserendo che l’esistenza di loro tutti, intrise delle loro scelte, sono passeggere e marginali se inserite in un contesto più ampio quale quello della vita e del mondo intero. Per i singoli, nella loro leggerezza, diventano preponderanti perché da umani ne abbiamo il desiderio che possano assumere importanza carica di densi significati, i quali possono apparire anche superficialmente contradditori, rivelandosi col tempo completi e avvolgenti. Matilde lo capiva bene, dopo esser stata in grado di far conciliare a meraviglia il suo estremo bisogno di calma, pace, stabilità e comfort zone, con l’anelito rivolto alla libertà, mettendosi in gioco, abbracciando le proprie paure, ritrovandosi capace di affrontare nuovi e sempre più grandi ostacoli, sorridendo davanti all’inconveniente, forte di saper fare il primo passo e, una volta in ballo, in grado di destreggiarsi, diventando così punto di riferimento e sprono per molti, soddisfatta della propria sfera privata ed emotiva, divenuta oramai la migliore versione di sé stessa.

La riunione ebbe termine con un brindisi, accompagnato da volti sorridenti. La prima ad allontanarsi fu la stessa Matilde, che una volta scesa in strada si sentì chiamare per un ultimo saluto dalla finestra da parte di tutti. Commossa, ricambiò quel bel gesto. Philip ebbe l’istinto di scendere ad abbracciarla ancora una volta e forse anche tentare di trattenerla. Si frenò, ritenendolo inappropriato. Ebbe però modo di sorridere, lanciando l’ultimo amo, gridando a Matilde un sincero grazie, certo che lei fosse in grado di recepirlo nella giusta maniera, dettato dal fatto di aver contribuito nella sua crescita, come lui era riuscito per lei. Fu a quel punto che Matilde, a testa alta, disse loro che erano stati la sua salvezza perché in grado di insegnarle come vivere secondo accettazione del prossimo e con gratitudine, al posto che chiusa, scissa e capace di mentire senza nemmeno accorgersene. Lei forse era stata davvero in grado di trasmettere a qualcuno più tenacia ma loro le avevano insegnato ad amare la sua fragilità, sotterrando l’ego con l’emotività a dominarlo. Quella serata era stata il lieto fine di un film. Stava raccogliendo i frutti della scia fatata che aveva seminato, appagando i cuori di ognuno. Matilde insistette ancora affermando che le era stato fatto capire di non poter cristallizzare la sua identità, di non essere una fotografia o un’etichetta statica, rendendosi conto della transitorietà della vita, intesa come il frutto di accadimenti da saper interpretare, affrontandola come una danza ebra e stupefacente, con la sua fiammella interiore sempre intensa a generare sensi e bellezza intorno a lei, riflettendo il suo splendore interiore. La sua forza si era convinta come fosse debolezza, perché effettivamente caparbia (se no non avrebbe potuto far diventare più uomo lo stesso Philip) ma specialmente incapace di perdersi lasciando dilagare quel senso di finta e auto distruttiva onnipotenza, decisiva per ripartire da sé stessa sapendo resistere e permanere nelle nuove situazioni, certa che attraverso i ricordi generati avrebbe trovato valore aggiuntivo all’iniziale dose d’amore che la fragilità – come dono più prezioso – le avrebbe suggerito. Il ringraziamento nei confronti di tutte quelle persone care che la guardavano come innamorate dalla finestra, si nutriva del fatto di averla fatta maturare, incapace di ripetere certi sbagli a inficiare le meraviglie che era straordinaria nel generare. Il suo cuore pulsava per quanto ricevuto da quelle persone, al punto da continuare a custodire la sua delicatezza anche per loro, rendendosi infinitamente apprezzabile nel suo divenire, in quel mutare nel tempo che ora sapeva con accuratezza come sprigionare ricoprendosi, e ancor più ricoprendo, d’affetto e amore puro.

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I francofortesi e la loro galoppante attualità

Nel volermi spingere a tentare di trovare qualche aspetto positivo in una pandemia globale, a primo impatto speravo di poterlo notare nel clima di unità che si sarebbe potuto creare tra gli uomini che, con lo stesso nemico in comune, potevano istaurare un rinnovato spirito di comunità, vogliosi di tornare a stare insieme.

A un anno e mezzo di distanza, con l’arrivo dei vaccini, mi risveglio disilluso nei confronti di questa speranza. Il proliferare delle polemiche sul green pass istituito dal governo, dimostrano come un clima di tutti contro tutti rimanga dominante in questa società estremamente divisa e frammentata. Al trovare amici, si preferisce generare nemici per combattere delle guerre nelle quali tendere a volersi schierare dalla parte del giusto, per elevarsi, nel dominio del proprio egoismo. L’uomo mira a comandare sugli altri, desiderando schiacciarli per sentirsi il re della giunga nella quale decide di operare. Ripudiare l’incontro, trascina in trionfo la difesa cieca di quanto superficialmente sostenuto, come a indossare i vessilli di uno specifico schieramento, per cui scioccamente combattere per sentirsi superiori.

Questo clima di lotta continua, lo si denota da tanti anni in ogni strato della società. Il sistema capitalistico incentiva i conflitti, proponendo una serie di piaceri indotti che, offuscando i più reconditi, rendono l’uomo impossibilitato ad avvertire un sano appagamento personale, lasciandolo vagare alla continua ricerca di quanto gli sembra attraente ma in realtà non riesce a identificare, attribuendogli un vero significato. Un esempio azzeccato ci deriva dal fondatore della scuola di Francoforte: Horkheimer. Il filosofo tedesco, riprendendo il canto delle sirene narrato nell’Odissea, faceva notare come ascoltare quel canto attraente poneva i marinai a sacrificarsi per soddisfare Ulisse, mostrando come il mondo vizi i capricci di pochi in cambio degli sforzi dei tanti subalterni i quali, a loro volta, da sfruttati si accontenteranno di sentirsi minimamente inglobati, trasformandosi in rare occasioni da servitori a serviti.

La natura umana risulta succube di un sistema repressivo dettato da questa tipologia di società industriale, la quale si fonda sul lavoro alienato e sfruttato. Ne patiscono gli istinti vitali e l’uomo basa la sua vita sulla prestazione quantitativa. Tutto si calcola, inglobato in qualche vacua numerazione a discapito della qualità. La libido preconfezionata che si sprigiona non appaga, le omologazioni si rivelano così delle ulteriori gabbie per quanto si presentino sotto forma di libertà. Per dirlo alla Marcuse, la vita si svolge in mono dimensione, infelice e dominata dalla diffidenza che insabbia e non consente libera espressione dei veri appetiti.

Quanto di più prezioso possieda davvero l’essere umano è il tempo, che viene dettato e suggerito suonando da costrizione. Ci sono i momenti per produrre e i ben più ridotti per consumare come inculcato. Queste vite pianificate, senza estro, vitalità e impulsi genuini, generano dei consumatori al posto che degli individui con un’identità personale. I bisogni vengono suscitati dall’esterno e come dei fruitori passivi li si asseconda alla stessa maniera di tutti gli altri. Di questi concetti ne è padrone Adorno che sottolinea il potere della comunicazione di massa che funge da distrazione globale, coi pochi che dominano sui molti, i quali avvertono una falsa parvenza di libertà difficile da smascherare perché ben più subdola e radicata di quella evidente dei regimi totalitari. La tecnologia diventa dominante nei confronti dell’uomo e della natura, al posto da fungere a loro favore come sarebbe dovuta essere concepita e alimentata. L’unica via d’uscita può essere nell’arte sovversiva, affinché infligga un colpo letale al tecnicismo umiliante e annichilente, arrivando a innescare delle novità e meraviglie interiori al posto di lasciarsi scaricare (più che installarle di propria volontà) dalle applicazioni per smartphone.

Istaurare dei rapporti basati sul dialogo – per dirla alla Buber sull’Io/Tu contrapposto all’Io/Esso – consentirebbe di confrontarsi in incontri autentici, assorti nel presente, cogliendo l’unicità dell’altro, evitando monologhi dove si tende a non voler ascoltare, chiudendosi in silenzi che danno l’illusione di sentirsi forti o in ambizioni vuote che finiscono col mal interpretare alcuni piaceri della vita, fungendo da vacui lenitivi che tengono distanti da sé e rendono le relazioni fugaci. La parte genuina e creativa della personalità trionferebbe, captando come si diventa io nel tu, nell’incontro con altre individualità. Questo mescolamento è l’unica via per capirsi, condividere gioie e dolori, andando oltre ogni genere di manipolazione, di relazioni tramite mezzi in lotta per il potere, con l’io narcisistico che prende le redini e tenta di piegare il mondo e gli altri alla propria volontà, categorizzando senza voler porre sincero ascolto e voglia di trovarsi in profonda intimità privata e condivisa.

In quest’epoca c’è molto da poter far girare a proprio favore. Urge però la giusta mentalità, disinvolta e consapevole nell’evitare di innescare i pericoli latenti di questo mondo moderno che non consente soddisfazioni e pone a presunzioni e megalomanie incompatibili con la vera gioia e profonda unione. Discutere sullo stesso piano con la propensione a prendersi cura di chi si ha vicino è osservabile in alcuni esempi genitoriali e a volte ancor più nei nonni, simboleggianti una sorta di resistenza a facili e deleterie tentazioni che allontanano dai veri e incancellabili sentimenti, composti inevitabilmente anche da difficoltà e sofferenze bisognose di compartecipazione accesa, instancabile e costante.

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Il caso plusvalenze

Nel Gennaio 2023, il procuratore federale Chiné chiede alla CAF la revisione di un processo sportivo di assoluzione, in primo e secondo grado. Quest’istituto è possibile da attuare attraverso l’articolo 39 del Codice di Giustizia sportiva, in caso di nuovi elementi all’epoca dei fatti sconosciuti. In ambito penale, la revisione è possibile da attuarsi soltanto nel caso in cui il processo in questione si sia concluso con la condanna, rendendo impossibile il riemergere di un processo di assoluzione, garantendo il diritto di non poter esser giudicati due volte sullo stesso filone giudiziario. In ambito sportivo è invece consentito revisionare il processo, dinanzi al giudice di secondo grado, anche nei casi di assoluzione. Date le intercettazioni inviate dalla procura di Torino al procuratore federale, quest’ultimo ha posto la richiesta di revisione, considerando rilevante la documentazione emersa dalle indagini svolte dall’accusa. La Corte d’appello, nel corso di un pomeriggio, ha ascoltato le motivazioni poste da Chiné per revisionare il processo e in contemporanea quelle atte al ribaltamento della sentenza precedentemente emessa. Allo stesso tempo, collegate da remoto, le difese della Juventus e delle altre società con le quali ha condotto delle operazioni di plusvalenza, hanno specificato perché non vi fossero gli estremi per ricorrere all’articolo 39 e, appena udite le richieste del procuratore federale, hanno provato ad entrare nel merito delle richieste di condanna. Quest’ultimo aspetto è purtroppo oscuro, poiché il dibattimento è stato tenuto in segreto, senza che nessuno abbia potuto ascoltare l’accusa o la difesa. Ne è emersa soltanto la richiesta di 9 punti di penalità per la Juventus da parte del procuratore federale, qualora si fosse acconsentito alla revisione. La CAF, sempre in quelle poche ore, si è subito espressa acconsentendo alla richiesta di revisione ed emettendo immediatamente anche la sentenza di secondo grado, aumentando i punti di penalità per la Juve a 15 e confermando soltanto delle ammende alle altre società.

Ai bianconeri, non potendo più entrare nel merito della questione, non rimase altro che attendere le motivazioni, per ricercarne dei vizi di forma da far valere dinanzi al terzo grado di giudizio del CONI. Le motivazioni si sono rese interessanti anche per capire come sia stato possibile ribaltare il precedente processo di assoluzione. In seguito alle tante pagine spese sul perché sia stato possibile revisionare il processo, la CAF ha specificato le violazioni operate dalla Juventus.

I motivi che hanno condotto alla penalizzazione sono riscontrabili in 3 punti principali. Innanzi tutto la Juventus ha generato delle plusvalenze con preordinata intenzione, mirando appositamente a indicare corrispettivi superiori al reale. Le plusvalenze erano l’obiettivo e non l’effetto delle operazioni condotte. Premeditare un risultato economico come fine e non soltanto come effetto della vendita, svolgendo a priori dei conti specifici, andando aldilà del normale gioco del calciomercato, con l’intento di migliorare il bilancio, è stato ritenuto sportivamente sleale. In secondo luogo, la stessa slealtà sportiva è stata riscontrata in virtù della sistematica attuazione di queste operazioni atipiche. Per quanto le condotte, viste singolarmente, siano da ritenersi lecite, le valutazioni cambiano dinanzi a un quadro generale che le evidenzia come ripetute. In questo modo la corte spiega perché le altre società che hanno cooperato con la Juventus al fine di produrre plusvalenze, non sono state penalizzate. Esse non hanno adottato dei comportamenti scorretti poiché isolati e non reiterati. Infine la Juventus è stata ritenuta sleale sportivamente per aver alterato il suoi conti gestendo le operazioni di mercato come singole transazioni e non come permute. Quest’aspetto è previsto dallo IAS 38 (paragrafo 45) motivando la condanna della Juventus con l’aver cercato di nascondere la natura permutativa delle operazioni incrociate, dimostrandosi così sleale in ambito sportivo.

Se questa è la visione accusatoria della vicenda, ne espongo una difensivista per consentire a chi legge di crearsi la sua opinione sul merito della vicenda.

Analizzando innanzi tutto il processo, va specificato come sia basato su intercettazioni estremamente parziali ricevute dalla procura di Torino. Il processo penale non era ancora iniziato e la congruità dell’accusa non è mai stata valutata da nessuna consulenza tecnica che, soltanto in sede dibattimentale, trasforma eventualmente in prova le intercettazioni. Il materiale utilizzato dalla giustizia sportiva come nuovo elemento in grado di revisionare e ribaltare un processo di assoluzione, senza alcuna perizia risulta del tutto privo di valore legale, non trattandosi di prove quanto di qualcosa che forse potrebbe diventare un mezzo per cercarle. Altre piccanti curiosità derivano dai conclamati vizi di imparzialità e terzietà del giudice. Dalla CAF, al Coni, numerosi sono i magistrati che tra fondazioni di inter club, partite seguite in curva del Napoli, ex ruoli da amministratore delegato del Napoli e insulti chiari, diretti e pieni di odio resi pubblici su internet, dimostrano di poter essere influenzati dal tifo nel giudizio da esprimere. Sorprende ancor più la fede calcistica del pm Santoriello della procura di Torino che effettua e invia le intercettazioni gradite alla giustizia sportiva. Quest’ultimo professa di odiare la Juventus e di essere da pubblico ministero ovviamente anti juventino. Deciderà lui stesso di abbandonare il ruolo dell’accusa nel processo penale, evidentemente conscio di non poterlo svolgere in maniera del tutto serena.

In tema di diritto appare evidente anche la violazione del principio di legalità, ovvero della garanzia di conoscere a priori cosa comporti un tale comportamento e le sanzioni previste dai criteri normativi predeterminati. Se la Giustizia Sportiva, come ha fatto in tanti processi di assoluzione, ha sancito ufficialmente e definitivamente che le plusvalenze non sono interpretabili e pertanto non possano esser giudicate come artificiali, illecite o abnormi, anche dinanzi al riconoscimento per mezzo di intercettazione telefonica di aver effettuato tali manovre, resta inalienabile il pilastro giuridico sancito ufficialmente dal Tribunale Sportivo che il concetto di plusvalenza fittizia non possa in nessun modo considerarsi illecito. Le plusvalenze rimangono uno strumento regolare e legittimo. Irrogare sanzioni per comportamenti ammessi dall’ordinamento, viola pertanto il principio di legalità. Nelle motivazioni della sentenza, la stessa corte invita il legislatore a codificare il reato che al momento in cui si giudica non è chiaramente da considerarsi tale e non ponendolo a conoscenza delle parti, gli preclude la possibilità di sapere per tempo di star violando una norma sanzionabile.

Doveroso è precisare anche il ruolo della stampa, che denomina un foglio di carta scritto a pennarello da Cherubini, come “Libro Nero di Paratici”. Questa dicitura verrà utilizzata anche in sentenza, lasciando presagire a chissà cosa di losco. Si tratta invece soltanto di pochi appunti presi da Cherubini sul suo capo, su operazioni condotte con scarso successo, come già conosciuto da qualunque appassionato di calcio. Qualificare suddetto foglio come decisivo elemento probatorio a carattere confessorio, appare alquanto fantasioso. Altrettanto curioso l’atteggiamento della Gazzetta in merito al ricorso al TAR degli avvocati di Paratici e Cherubini, per ottenere l’accesso a una nota Covisoc citata nelle motivazioni della sentenza e negata alla difesa dal Procuratore Federale Chiné. Il TAR prima, e il Consiglio di Stato poi (interpellato a sorpresa dalla FIGC con apposito ricorso per opporsi all’istanza della difesa, dimostrandosi nei fatti per nulla imparziale, quanto intenzionato ad accusare e voler punire, pur a costo di negare la consultazione di alcuni documenti) hanno accolto l’istanza di accesso agli atti della difesa e immediatamente dopo, meno di 10 minuti, la giornalista Esposito Elisabetta, ha pubblicato un articolo col contenuto di quella nota, lasciando tutti perplessi sul come potesse già averla in redazione, ancor prima venisse inviata agli avvocati difensori. Nel suo articolo preme sull’evidenziarne l’ininfluenza, sottolineando che la Juventus non viene mai nominata, senza porsi alcun dubbio sul perché allora sia stata citata in una motivazione di condanna ai danni della Juventus o perché non siano state processate le altre squadre citate o ancora come non sia stato garantito il diritto alla difesa, rappresentando quest’omissione di trasmissione di atti idonei al contenzioso un chiaro vizio di forma, rilevabile in terzo grado. L’intenzione della Esposito è piuttosto sembrata quella di esser in lotta per una partita, da disputare in seno al sentimento popolare, quello dalla sua parte gravemente ferito dalle decisioni di Tar e Consiglio di Stato, che l’hanno spinta a riportare subito in parità le sensazioni all’esterno, da parte della massa che legge solo i titoli e non ha strumenti e voglia per approfondire le vicende, lasciandosi trascinare dal vento, in balia di queste false informazioni assolutiste, senza la capacità di entrare nel merito e porsi dei quesiti legittimi. Lo stesso modus operandi si è verificato quando la FIGC, preoccupata dell’intervento del Tar a processo in corso, ha tentato di salvaguardare la sua autonomia, convinta di poter operare indisturbata, con la Giustizia Ordinaria chiamata a potersi intromettere solo a sanzioni irrogate, col compito di decretare qualche multa. Per scongiurare l’ipotesi di doversi attenere alle norme del giusto processo, come il Tar ha stabilito nell’indurre la figc a consegnare la comunicazione con la covisoc, la figc si è nuovamente rivolta al Consiglio di Stato che ha rigettato il ricorso della federazione, sancendo come valido l’intervento della giustizia ordinaria per far rispettare gli insindacabili presidi alla base della Costituzione. La Gazzetta ha goffamente tentato di glissare anche su questa sconfitta della federazione italiana giuoco calcio, asserendo come la decisione del Consiglio di Stato non fosse entrata nel merito del contendere, come a stridere i denti contro la possibilità di poter operare indisturbata, in barba a ogni codicistica giurisprudenziale.

Mi permetto di aggiungere un’utile osservazione, nello spiegare di cosa si parla quando ci si riferisce a una plusvalenza. Quando una società acquista un calciatore, ne ammortizza il costo su più esercizi, spalmandone il valore in base agli anni di contratto stipulati. Lo registra pertanto tra le attività di Stato patrimoniale, ripartendone il valore nel Conto Economico in base alla durata del contratto attraverso il processo chiamato di ammortamento. Al momento della cessione, le entrare si contabilizzano interamente nell’anno in cui si esegue. La plusvalenza non è dettata dalla differenza tra il valore cessione e quello originario di acquisto, quanto tra la cessione e l’ammortamento in bilancio. Riporto un esempio del professor di Economia Fabrizio Bava: Se per un calciatore acquistato a 10 viene stipulato un contratto della durata di 4 anni. Il “calciatore” viene iscritto in Stato patrimoniale a 10 e ogni anno il suo valore si riduce di 2,5 (cioè 10 diviso 4), mentre 2,5 sarà iscritto nel Conto economico a titolo di ammortamento. Al termine del secondo anno, il calciatore sarà iscritto in Stato patrimoniale al valore di 5. In caso di cessione all’inizio del terzo anno del calciatore, che nei due anni è cresciuto tecnicamente, al prezzo di 14, il club ottiene una plusvalenza di 9 . E non di 4, in quanto la plusvalenza è la differenza tra il prezzo di vendita, pari a 14, ed il valore residuo di iscrizione del calciatore in bilancio (e non il prezzo pagato al momento dell’acquisto). Ciò significa che qualunque plusvalenza data da uno scambio di giocatori, genererà un utile immediato, quanto un onere seguente perché si inizierà ad ammortizzare, per il futuro, lo stesso importo. In parole povere, la plusvalenza aiuta oggi, nella stessa misura in cui inguaia domani. Non è un trucco, può esser piuttosto vista come il nascondere la polvere sotto il tappeto. Nel tempo i nodi verranno inevitabilmente al pettine e si sarà costretti (come ha fatto la Juventus per 700 milioni di euro) a ricapitalizzare, iniettando liquidità, ovvero soldi veri. La Juventus ha dimostrato, dati alla mano, che le plusvalenze contestate da Chinè rappresentano il 3,6% dei suoi ricavi. Negli ultimi 9 anni la Juve ha effettuato plusvalenze per il 21% del suo fatturato. Nella classifica dei 10 club che sono sempre stati in A in quel periodo è settima. In testa Udinese e Genoa con il 69%, poi Atalanta (38%), Fiorentina (35%), Roma (33%) e Napoli (30%). Insomma, i numeri delle plusvalenze della Juventus non sembrano anomali. La scelta di avere un tornaconto nell’anno in corso, da ripagare nei seguenti è perfettamente legittima. Sportivamente si rivela una strategia di dubbia interpretazione, in quanto danneggia per il futuro, come si è visto per la Juventus che ha disperso il vantaggio competitivo abnorme che si era creata in un decennio di dominio assoluto, arrancando con due quarti posti e risultati sempre meno considerevoli anche in Europa. Questa è la penalità causata dalla mala gestione delle plusvalenze. Il resto, almeno a chi scrive, appare un accanimento criminale. Se in un contesto è consentito utilizzare questi mezzi e non lo fai, non potresti d’altronde competere ad armi pari.

Entrando finalmente nel merito dei tre punti della motivazione, bisogna innanzi tutto esperire come condurre plusvalenze al fine di sistemare il bilancio possa tranquillamente essere un obiettivo. Questo è pacifico e indiscutibile. I ricavi da plusvalenze sono considerati di natura ordinaria e per una squadra di calcio diventano l’obiettivo e non la conseguenza o l’effetto di un comportamento sleale, specialmente in un periodo come quello del covid diventano doverose, data la necessità di contenere le perdite derivanti dal venir meno di altre tipologie di ricavi (basti pensare agli stadi chiusi). I prezzi dei giocatori emergono dal mercato e calcolare quanto possa servire per fini economici è intuitivo che venga ragionato da qualsiasi dirigente. Le società hanno un lato sportivo e un lato finanziario che va curato, ascoltare delle intercettazioni con oggetto l’intenzionalità di produrre plusvalenze è del tutto prevedibile (ad esempio subito dopo la condanna, Carnevali, l’amministratore delegato del Sassuolo, lo comunica apertamente alla Stampa in merito al dare una mano alla Roma, facendole fare plusvalenze con Volpato e Missori). Il contenuto delle conversazioni telefoniche si pone su questo tenore, l’elemento per revisionare un processo e la slealtà sportiva maturata deriverebbero da una strategia e preparazione conducente a un effetto (la plusvalenza) che sicuramente era stato pianificato e non può confluire in alcuna forma di reato. Le plusvalenze vengono infatti ancora definite lecite, un normale processo di generazione di utili aziendali. Lo ribadiscono le motivazioni, come emerge dalla giurisprudenza sportiva che specifica come non sia possibile stabilire con metodi scientifici il valore delle prestazioni d’opera di un calciatore. Dalla sentenza emerge unicamente il messaggio di come questa condotta sia consentita tranne se ammetti su un telefono intercettato di esser consapevole di attuarla, qualora si faccia finta di niente o lo so dica apertamente ai microfoni invece non si rischia nulla. Altrettanto illogico è il secondo punto delle motivazioni alla condanna, reiterare una condotta consentita e ampiamente diffusa che non prevede punti di penalizzazione, non può comportare un gravoso -15 in classifica. Per fare un esempio, è come se parcheggiare più volte in divieto di sosta, che prevede la multa ma non la penalità in punti della patente, si accumulasse come comportamento non etico stradale e finisse per penalizzare sotto un aspetto non normato. Infine, la terza e ultima motivazione della sentenza, riferita al tecnicismo della permuta da registrarsi come tale, anziché come plusvalenza, lascia più che mai basiti. Tutti i club italiani, nonché europei (a eccezione di sole due squadre portoghesi), registrano quel tipo di operazioni a specchio che causano plusvalenza come plusvalenze. Ritenere sleale una disposizione contabile mai stata stabilita è difficile da commentare. Il gip, esprimendosi sulle plusvalenze, ha dichiarato l’assenza di malafede. La Consob non si è mai riferita alle plusvalenze nel ritenere artefatto il bilancio della Juventus. Le normative nazionale FIGC e quelle internazionali UEFA, ai fini dei parametri di financial fair play, impongono alle società di considerare tali voci di ricavo come plusvalenze. Ma in particolar modo, il revisore legale interpellato dalla Juventus, Deloitte & Touche S.p.A ha considerato corretto la contabilizzazione di tali operazioni come plusvalenze (considerando pure la natura della Juventus, quotata in borsa, la quale peculiarità si fatica a comprendere come possa in ogni caso poter addurre a una differenza valutativa sull’etica morale in campo sportivo). Un parere tecnico più autorevole e indipendente non è consultabile. Se addirittura risultano corrette e diffuse in ogni parte d’Europa le scritture contabili sulle operazioni a specchio, come possono mai esser additate come sleali?

La Juventus. nel ricorso al CONI, sottolinea i punti già intuiti dalla suddetta analisi che ci saranno utili come riassunto:

  • In prima istanza richiede di annullare la revisione del processo di assoluzione perché gli atti trasmessi dalla procura non sono fatti idonei per sovvertire la ratio decidendi della sentenza revocata. I nuovi elementi (ovvero le parziali intercettazioni inviate da Santoriello a Chinè) non hanno valore giuridico, in quanto potrebbero ritenersi utili per condurre a delle prove soltanto in sede di dibattimento penale (ancora da stabilire, all’epoca dei fatti, se verrà anche solo iniziato). Le stesse sono peraltro già state discusse e passate in giudicato, non rappresentando un fatto sopravvenuto.
  • In seguito, chiede l’annullamento in terzo grado in merito al mancato contraddittorio che non ha garantito un giusto processo, violando il diritto alla difesa. Su quest’aspetto si registra una nota della covisoc citata in sentenza che è stata negata dall’accusa alle richieste della difesa che, dopo il verdetto di secondo grado, per ottenerla si è dovuta rivolgere al tar e, dopo ricorso della figc all’accoglimento della richiesta della difesa della Juventus, anche al consiglio di stato, ottenendo la possibilità di consultare degli atti che le erano stati tenuti nascosi, eppure avevano decretato la condanna. Si aggiunge anche l’omissione nelle motivazioni di aspetti presenti nell’inchiesta penale, nei quali emergono le spiegazioni fornite dalla Juventus, contestualizzando il comportamento del club.
  • In seguito, chiede l’annullamento per aver assistito al cambio del capo di imputazione, aggiungendo all’articolo 31 (la norma specifica che prevede solo ammende) una norma di chiusura (l’articolo 4) che si utilizza soltanto quando l’aspetto del contendere non è normato. La Juve, non conoscendo questo genere d’accusa, relativa alla slealtà, non si è difesa sul merito della questione ed ha anche avuto un grado in meno di giudizio per poterne discutere e portare avanti le proprie ragioni.
  • In seguito, chiede l’annullamento per il principio contabile stabilito dallo IAS34 paragrafo 45 che all’epoca dei fatti non veniva applicato nel settore e nemmeno ex post è effettivamente accertato come applicabile dato che i revisori non hanno fatto alcun rilievo. Ribadisco che le plusvalenze generate da operazioni a specchio non vanno registrate come permute ed averle considerate delle plusvalenze è una giusta interpretazione, come quanto indicato dalla Deloitt, una grande società di consulenza, una delle big 4, a cui la Juventus ha chiesto parere, ricevendo in risposta di non aver rivelato alcun problema sotto quest’aspetto, accertando di poter contabilizzare come plusvalenze le operazioni contestate, come fanno tutti in Europa (eccetto due squadre portoghesi: il Porto e lo Sporting Lisbona). Ripeto anche come la Figc e la Uefa, ai fini del fair play finanziario giudichino in base a queste operazioni considerate come plusvalenze e non permute e infine anche come il gip non abbia ritenuto vi fosse malafede (e quindi come potrebbe mai esserci slealtà?) in merito alle plusvalenze.
  • In seguito, chiede l’annullamento per la violazione del principio di legalità, già ben affrontato e ampiamente spiegato, oltre che per la mancata valutazione di elementi ritenuti decisivi dalla Procura e dalla Corte, mai spiegati.
  • In seguito, chiede l’annullamento per prescrizione poiché la Procura era a conoscenza di un possibile reato sportivo già nell’aprile 2021, inficiando gli atti successivi divenuti inutilizzabili. Questo è testimoniato dai chiarimenti richiesti alla Consob a proposito dell’interpretazione nell’iscrizione delle plusvalenze, risalendo alle date dalla nota nascosta dalla FIGC e fatta emergere soltanto grazie all’intervento del TAR.
  • In seguito, chiede l’annullamento per l’omessa motivazione sulla quantificazione delle sanzioni irrogate, mancando alcun riferimento al motivo sul come siano stati calcolati esattamente in 15 i punti di penalità, aumentando i 9 chiesti dalla Procura.
  • In seguito, chiede l’annullamento per il mancato riferimento all’articolo 6 che conduce alla responsabilità diretta per le società, imprescindibile per condannare qualora i dirigenti si ritengano sleali sportivamente.
  • In ultimo, chiede l’annullamento perché la Corte non ha preso in considerazione che la Juventus si fosse dotata di un modello gestionale ex articolo 231/2001, che consente a qualsiasi azienda di essere sollevata da ricadute in caso di comportamenti illeciti da parte di un singolo dipendente. Non averlo assorbito nelle sue motivazioni significa che i giudici non hanno considerato in maniera completa eventuali attenuanti prima di arrivare a quantificare il verdetto.

Questi sono incontrovertibilmente i fatti, figli di una valutazione neutra, spogliati dall’indossare la sciarpa del tifoso. Se avvolta attorno al collo di chi odia la Juve è facile intuire come il rancore covato offuschi la mente anche della persona più saggia, inducendola ad aumentare i suoi complessi mentali. L’avvocato Giovanni Agnelli non a caso consigliava di non rispondere agli antijuventini, dati i loro problemi psicologici sull’argomento. Analizzarne le reazioni mi ha sempre regalato un piacere del tutto particolare nel seguire la Juventus, potendo osservare da vicino una storia contornata da molteplici elementi umani, di invidia e frustrazione, aiutandomi a comprendere i complessi di questi odiatori seriali e allo stesso tempo ad allenare la capacità di saper stare vicino alle persone, nella misura in cui sopporto maldicenze e attacchi mediatici continui, senza mai smettere di seguire l’evolversi delle vicende legate alla Vecchia Signora, ritrovandomi a interpretare il ruolo di custode della sua storia, come vero appassionato desideroso di conoscere meglio il mondo esterno e in grado di generare i suoi radicati significati.

Quel che mi balza all’occhio è come la giustizia sportiva possa definirsi organo di diritto se mira soltanto ad esprimere un giudizio morale ed etico, che nessun tribunale dovrebbe adoperare come criterio, permettendosi di andare oltre la legge. Quest’atteggiamento non fa altro che falsare il campionato, a differenza delle plusvalenze perpetrate da ogni club. Il vero e chiaro motivo che si palesa dietro a quest’attacco alla Juventus, risiede in una visione del calcio a più ampio raggio. Per capirlo bisogna tornare indietro al tentativo dei bianconeri, insieme ad altri blasonati club europei, di dar vita alla Superlega. Questa competizione avrebbe permesso alle sue partecipanti di aumentare notevolmente i ricavi, risolvendo una crisi ciclica (come quella attuale accelerata dalla pandemia) di cui il sistema economico capitalistico vigente in Europa (di cui il settore sportivo ne è una sotto realtà che segue le stesse logiche della sua macro struttura, venendone risucchiata – così come le arti – e tramutata in mera merce) ne è periodicamente e inevitabilmente soggetto. Gli interessi dei club europei come la Juventus che hanno le potenzialità per aumentare il loro indotto economico, si scontrano però con i regolatori attuali (la Uefa in Europa e le leghe nazionali) che dispongono di posizioni di privilegio, rappresentando anche la parte commerciale monopolista, detentori della funzione inquirente e giudicante del sistema auto costituito. La Juventus, con la figura del suo ex presidente Andrea Agnelli, era ben dentro a questo circuito, ricoprendo il ruolo di consigliere della FIGC, presidente ECA e ruolo nel comitato esecutivo UEFA. Agnelli ha deciso di abbandonare tutti gli incarichi per tentare di sovvertire il sistema, convinto che il congegno attuale non fosse più sostenibile, conducendo all’inevitabile collasso e ridimensionamento di tutti i club europei, eccetto quelli della Premier, destinati ad attrarre tutto il talento mondiale nel suo campionato. La Superlega avrebbe infatti soppiantato del tutto la Uefa. Le sue competizioni sarebbero scomparse, mentre le varie leghe nazionali si sarebbero ridotte a campetti d’allenamento, dove attuare un ferreo turnover, dato il campionato più importante da disputare ogni settimana contro le altre big del calcio europeo. La Uefa ha così trovato validi alleati nella federazione italiana e spagnola, nel tentativo di indebolire la Juventus, come anche il Barcellona. Per mantenere lo status quo, Uefa, Figc e Liga hanno sicuramente bisogno di ridurre le mire espansionistiche dei club che sostengono la Superlega. In Italia, indebolire la Juventus, significherebbe anche far dividere i posti in Champions ad altre quattro squadre, senza badare alla necessità di ridurre presto i costi, non potendo più aumentare i ricavi, ridimensionandosi al cospetto delle squadre inglesi. Questa prospettiva non tange la Figc, ben disposta a tutto pur di non vedere la Juventus spiccare ulteriormente il volo, non sapendole perdonare il successo per l’odio intrinseco che ne nutre e per il potere di cui attualmente dispone con l’importanza delle sue competizioni che con la Superlega verrebbe clamorosamente meno. Si capisce così il chiaro intento della Figc (alla quale, chissà, è forse stato promesso anche di poter organizzare un europeo?) di punire la Juve, spinta dal terrore di poter finire nel dimenticatoio, relegando la sua Serie A a manifestazione di periferia. Gli stessi media che gravitano intorno a un prodotto ormai logoro come il campionato italiano, pur di mantenere quei pochi privilegi che gli sono rimasti e gli indotti economici di cui dispongono, si schierano per mezzo stampa e televisivo apertamente contro la superlega, nel terrore di venir sostituiti in una visione più grande dell’industria calcistica. Ecco spiegato il contorno del metodo stalinista adottato contro la Juventus, mirando a colpire una società con continue accuse, illazioni, in una confusione difficile da decifrare, attraverso processi sfiancanti, difficoltà di programmazione, mancanza di serenità, dovendo continuare ad operare sotto il ricatto della richiesta di rinunciare alla Superlega, piegandosi al potere vigente che non intende passare la mano. Si spiega così facilmente la nomina di Gravina (presidente della figc) a vice presidente Uefa, dati i meriti riconosciuti nel tentativo di affossare la Juventus. Lo sforzo di entrare nel merito del diritto, lascia così tristemente il tempo che trova, quando l’organo giuridico non si comporta affatto come terzo e imparziale in merito alle fattispecie da giudicare, agendo col chiaro intento di punire una sola squadra (tenendo infatti fuori dal filone plusvalenze tutte le altre, compresi i club con cui la Juventus ha attuato compravendite e presunte partnership). L’autonomia dell’ordinamento sportivo diventa così un abuso improntato sull’accusa di slealtà sportiva, mancando qualsiasi tipo di reato. Evidenziando soltanto come a non esser leali, peccando in etica e moralità, siano soltanto coloro che lottano per dar sfogo al loro complesso di inferiorità e invidia nei confronti della Juventus, oltre che al timore di non contare più nulla, qualora nasca una competizione calcistica che soppianti o riduca drasticamente il seguito di tutte le altre. Utilizzare per questi intenti il diritto e la giustizia è davvero riprovevole.

Il 19 Aprile 2023 il Coni decide di rinviare alla Corte Federale d’appello in ordine alla determinazione dell’apporto causale dei singoli amministratori, fornendone adeguata motivazione e traendone le eventuali conseguenze anche in ordine alla sanzione irrogata a carico della Juventus. La decisione arriva dopo un giorno, a ridosso della partita di Europa League della Juve, rischiando di destabilizzarla e prendendosi molto più tempo per vagliare degli eventuali vizi di forma di quanto era stato necessario in secondo grado di giudizio per decidere di revisionare un processo e allo stesso tempo – dopo aver ascoltato da remoto accusa e difese – emettere sentenza di condanna. Nel corso del processo al Coni, la figc non si costituisce in giudizio e la controparte del club bianconero è data in carico alla procura generale dello sport. Sorprese come il prefetto Ugo Taucer si espresse in merito al rispetto dell’applicazione dell’articolo 4, ritenuto infondato rispetto ai punti comminata alla Juve, chiedendo di rivalutare la sentenza. La stessa accusa venne così ascoltata con l’auspicato rinvio alla Corte d’appello federale per rimodulare la sanzione. Le motivazioni del Coni, giunte quasi 3 settimane dopo, nello sviluppo delle sue 75 pagine, lasciano un senso di disgusto e impossibilità nell’esprimersi calcando l’ambito giuridico, chiarendo per l’ennesima volta come tutta la questione sia soltanto una guerra politica. Ad ammetterlo, lasciandolo trapelare chiaramente senza nascondersi è Evelina Christillin, membro del consiglio Uefa che si espresse in questi termini: “Non dimentichiamoci che con la Uefa i rapporti non sono eccellenti dopo la questione Superlega: la Juve rimane una delle tre squadre che ancora mantengono vivo il progetto. Passi di avvicinamento non se ne sono visti al momento”. L’ammissione di un ricatto in stile mafioso che infanga la giustizia, sostituendola con l’amministrazione di un potere forte, una vera e propria legge della giungla. Poco dopo, alla Caf, sempre da remoto, il procuratore Chiné chiede stavolta 11 punti di penalizzazione per la Juventus e 8 mesi per i consiglieri. Quattro mesi prima aveva chiesto 12 mesi per i consiglieri e 9 punti per la Juventus. In assenza di ulteriore materiale probatorio, viene alzata la richiesta di penalità al club. L’abuso si concretizza con prepotenza e a pochi minuti dalla partita della Juventus, giusto per destabilizzare ancor più l’ambiente, arriva il verdetto di secondo grado che affibbia – 10 punti ai bianconeri. Il giudizio, ispirato dai sentimenti di vendetta, ridicolizza l’intero sistema calcio italiano ed europeo.

Esprimendo un sentimento da tifoso juventino, mi sovviene quanto avvertito dopo farsopoli, scandito da rivalsa, poi ottenuta in un decennio d’oro, mai visto prima e irreplicabile in futuro. Ai successi, si aggiunse la soddisfazione di vedere distrutta la passione dei sostenitori italiani anti juventini. Ora, a esser distrutta è la mia passione per questo sport in generale. Sento però come sia ben diverso perché per me non lo è a causa delle tante sconfitte sul campo, della frustrazione di veder vincere sempre quella che odio, ogni anno, per un decennio della mia esistenza con tante forze dedicate a desiderare ardentemente qualcosa di diverso. Si distrugge il mio interesse per questo sport perché utilizzare il diritto, rifacendosi a una norma sull’etica, la morale e la lealtà sportiva, per assecondare un comportamento in stile pienamente mafioso, svilisce lo spirito di questo gioco, sbeffeggia la passione dei tifosi che hanno seguito e pagato per delle partite inutili e umilia il diritto capovolgendo il significato di determinati valori. La punizione impartita tramite i tribunali, al tentativo di istaurare la Superlega e al rifiuto di abbandonarne l’idea, mi disgusta e lascia decadere la voglia di assistere a un vile teatrino, capeggiato da interessi che esulano dalla cultura sportiva e macchiano indelebilmente questo spettacolo dal quale non posso che prenderne le distanze. Anche qualora venisse istituita la Superlega, con chi ha lottato per realizzarla festante per aver affossato la Uefa, non mi reputerei felice se attuasse a sua volta comportamenti intimidatori e vendicativi contro altri club che l’avevano magari osteggiata, facendo mancare il loro appoggio in questa che è reputabile come una vera e propria guerra. Mi suonerebbe come una mafia che ne sostituisce un’altra e, seppur non scadrebbe nel perpetrarsi di discorsi giuridici per utilizzare norme che macchiano il vero concetto di etica sportiva, moralità umana e slealtà nel gioco, mi farebbe ugualmente schifo, vedendo il calcio ormai trasformato, devoto del tutto alle logiche dell’industria del capitale. Eviterò pertanto di finanziare in ogni modo questo sistema lercio finché continuerà ad abusare di una posizione dominante, nel caso della Uefa addirittura da monopolista che ha estromesso le passioni più genuine, come lo era la mia.

Col giungere delle motivazioni della corte federale d’appello per il -10 alla Juventus, ricalcolato dopo l’intervento del Coni, le perplessità sull’operato della giustizia sportiva non possono che aumentare. Come scontato, l’imbarazzo nel quale si sono trovati ad operare, ha partorito l’ennesimo pasticcio giuridico. Si calca così la mano sull’unica carta possibile da utilizzare, relativa ai doveri di lealtà, correttezza e probità. L’articolo 4 viene a forza specificato come non sia una norma residuale e pertanto applicabile in mancanza di previsioni specifiche, quanto una clausola generale, a cui i soggetti dell’ordinamento sportivo devono ineludibilmente conformare la propria condotta (come se tutti gli altri club non avessero chiaramente adottato gli stessi comportamenti senza venire mai indagati e così puniti, come con l’articolo 4 è talmente semplice). Insistere su quest’aspetto etico e morale, quando si attua una mossa del tutto politica, sotto il potere di un organo europeo, ricopre di vergogna la figc e questo marcio ordinamento che si considera impropriamente giuridico e andrebbe soltanto riformato da cima a fondo. La corte federale ammette di dover prosciogliere dalle accuse a loro ascritte i consiglieri di amministrazione della Juve senza delega. Pertanto ridetermina la sanzione in base alla slealtà dei consiglieri operativi, seguendo i principi di afflittività, proporzionalità e ragionevolezza, calcolando banalmente la penalizzazione in 10 punti così suddivisi: 4 per Paratici, 3 per Agnelli, 2 per Arrivabene (che pure è diventato amministratore delegato della Juventus soltanto il primo Luglio 2021, dopo tutti questi fatti addebitati alla Juventus, senza quindi la possibilità di avere alcuna responsabilità nel produrre con scarsa etica plusvalenze in maniera sistematica), 1 per Cherubini.

La Juve decide di non presentare ulteriore ricorso che, per quanto al Coni sarebbe stato facilmente respinto, in mancanza di ulteriori vizi di forma ormai sanati, al Tar, potendo rientrare nel merito, si sarebbe con ogni probabilità concluso con un successo che avrebbe costretto la Figc a risarcire la Juventus per i mancati introiti della Champions League e ulteriori danni d’immagine. Una sanzione che i vertici del calcio italiano hanno voluto scongiurare, accordandosi con la Juventus sul filone stipendi e partnership, un nuovo processo senza capi di accusa concreti e violazioni di norme specifiche che prevedono sanzioni già circoscritte, pronte però a poter essere sostitute da invenzioni dettate dalla solita slealtà sportiva, disciplinata dall’articolo 4, con stavolta la possibilità di inserirci magari il tema della recidiva. Si è così chiuso tutto con una lieve multa che ha consentito alla FIGC di non venir pesantemente multata in termini economici dal Tar e di salvare la faccia sul suo operato oltremodo discutibile sul processo plusvalenze, evitando di ridicolizzarsi ulteriormente con una nuova accusa farsesca e un processo da escogitare sotto enorme sforzo fantasioso a scapito della già decadente credibilità. Dal canto suo, la Juventus accetta di chiudere tutti i procedimenti tenendosi i 10 punti di penalità che non la faranno partecipare alla prossima Champions League, per evitare di subire altre angherie dalla Figc che avrebbe avuto modo di crearne ad hoc, di poter iniziare a programmare seriamente la prossima stagione, libera da incombenze. Il club bianconero ribadisce la correttezza del proprio operato e la fondatezza delle sue argomentazioni difensive ma preferisce superare lo stato di tensione e instabilità che deriverebbe dal proseguire i contenzioni incerti negli esiti e nei tempi, con il risultato di penalizzare le attività sportive e i rapporti di business con le parti commerciali e finanziarie.

Da una prima impressione ho pensato che la Juventus fosse stavolta riuscita a resiste all’onda d’urto proveniente dall’Uefa e dal suo braccio armato della Figc, pensandole deluse di non aver affossato i bianconeri, i quali sembravano restare in sella per proseguire nella Superlega e in forze per provare a riconquistare lo scudetto in tempi bravi e le competizione europee nel giro di un anno. Attribuivo parte del merito anche ai tifosi che grazie alle loro disdette alle pay tv (il principale indotto per il calcio italiano) hanno lanciato un chiaro segnale su come il prodotto calcio in Italia, senza loro stufi della scarsa credibilità di tutto il sistema, avrebbe drasticamente perso appeal, facendo intuire il peso specifico che il blasone della squadra da loro sostenuta ha all’interno del movimento sportivo nazionale. Il danno procurato dal nulla ai bianconeri mi era chiaro come si fosse però concretizzato, una spallata la vecchia signora l’ha subita perdendo la qualificazione in Champions League conquistata sul campo, costretta quindi a restare un anno senza poter giocare fuori dai confini nazionali, col gravoso danno economico che ne sussegue. Un quadro che descrive quanto lo sport sia stato contaminato dalla politica più becera e di basso rango, snaturando completamente lo spirito delle competizioni e avvilendo la passione dei tifosi costretti ad assistere a questi teatrini e giochi di potere che esulano dai suoi interessi più genuini.

Ben presto, la mia percezione sulla vicenda è cambiata in peggio. I media spagnoli hanno comunicato di una lettera inviata dalla Juventus al Real Madrid e al Barcellona per uscire dalla Superlega a causa delle minacce dell’UEFA di espellerla dalle competizioni europee per più anni. La Juve ha subito precisato di non aver subito pressioni, prendendo le difese dell’UEFA, confermando la concreta possibilità di abbandonare i propositi per la Superlega. Metaforicamente è come se il bullo UEFA avesse picchiato la Juventus che al posto di denunciarla si è messa ad urlare di non esser stata toccata. Una perdita d’orgoglio, di dignità, una macchia nella propria storia imperdonabile. La resistenza attuata dalla Juventus è stata misera ed è finita col prostrarsi all’UEFA. La penalizzazione farlocca inflitta dalla FIGC, che ha escluso i bianconeri dalla prossima Champions League che aveva conquistato sul campo, si è subita per nulla. Alla fine ha prevalso la paura di ulteriori perdite economiche, preferendo cedere a ricatti per non rimetterci più del dovuto. La paura per le sanzioni ha condotto a una resa vergognosa. I proprietari della Juve, senza più neanche la presenza di Andrea Agnelli, non sono per nulla dei tifosi ma soltanto dei capitalisti che vogliono poche scocciature ed evitano di improntare costose guerre a difesa dei bianconeri. A prendere le parti della Vecchia Signora, più che sé stessa, è rimasta la società incaricata a spingere per la Superlega, che ha precisato come esistano prove inconfutabili delle minacce dell’UEFA alla Juventus.

Gli appassionati più attenti della Juve avrebbero con orgoglio preferito andare a un muro contro muro con la figc, ricorrendo al tar per infliggerle il colpo di grazia sotto il profilo economico e subire le angherie dell’Uefa, lasciandosi squalificare dalle competizioni europee. Il ritorno al successo dopo questa ingiusta sanzione, seppur contornato da un periodo di forte instabilità con i dovuti rischi anche commerciali, sarebbe stato pregno d’orgoglio. A differenza, adesso, più che di vincere le competizioni di Uefa e Figc delle quali si è rimasti prigionieri indifesi, la speranza diventa quella di veder collassare questi organi che agiscono politicamente impartendo penalità e ricatti sportivi insostenibili, pur di mantenere i loro privilegi.

Per la Figc si prevedono tempi bui, pur se salva dalle sanzioni economiche che gli avrebbe inflitto il Tar e aldilà dei disastrosi risultati sportivi delle nazionali (comprese quelle giovanili) si attende un declino inarrestabile, con scarsa competitività sul campo europeo (che si appresta a un dominio inglese, dal calciomercato al campo, come già iniziato con i successi in Champions del Manchester City, fino alla Confederation League del West Ham) e introiti economici sempre più miseri per il settore di riferimento, in un mercato interno senza prospettive, i diritti tv da ricommercializzare al ribasso e un appeal in picchiata. La Juve stessa sarà la prima costretta a contenere i costi, con tutto ciò che ne comporta senza i suoi cospicui investimenti. Il tifoso bianconero, non potendosi assolutamente sentire parte di questa federazione, sorriderà del declino italiano. In ambito europeo la Uefa si è invece dimostrata molto forte politicamente, la guerra per i grossi interessi che gravitano intorno non avrà fine ma lo sdegno emerso non verrà dimenticato, col conseguente distacco – almeno da parte di chi scrive – dal nauseabondo mondo del calcio che si è delineato.

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La Juventus abdica dopo 9 lunghissimi ed entusiasmanti anni

I nati nel 2011, da quest’anno, sono ufficialmente disorientati. Per loro, la Juventus campione d’Italia era un evento a scadenza fissa. Come se fosse la Pasqua che nello stesso periodo si verifica puntualmente. Questi neonati, anzi ora bambini, quasi ragazzi, hanno scoperto che non è scontato che vinca sempre la Juventus, che in serie A giocano altre 19 squadre e lo scudetto può anche conquistarlo qualcun altro.

Uno shock per chi ha sempre visto il tricolore sulla maglia della Juventus mentre: “Gangnam Style” era la hit del momento, qualcuno ancora credeva alla profezia Maya della fine del mondo il 21 Dicembre 2012, Schettino era uno sconosciuto, Mario Monti era il presidente della Repubblica, Benedetto XVI papa, Andreotti vivo, Ferguson allenava il Manchester United, il Sassuolo non aveva mai giocato nel massimo campionato italiano, il Leicester era nella serie B inglese. Si sono susseguiti tre presidenti degli Stati Uniti d’America, 5 CT nella nazionale italiana e molto altro ancora.

Questi 9 anni hanno comportato notevoli cambiamenti nelle vite di chiunque. Ci saranno state nuove nascite, morti, amori, delusioni, diplomi, lauree, trasferimenti. Nel mentre, senza entrare troppo nel personale, io ho ad esempio visitato una ventina di stati europei, 19 regioni d’Italia e un centinaio di comuni siciliani differenti. Chiunque ci pensi, troverà tantissimo da ricordare e tutto si è svolto sotto il dominio a marchio bianconero!

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La stagione della Juventus di Pirlo

Andrea Pirlo diventa l’allenatore della Juventus a sorpresa, dopo esser stato presentato per l’under 23 bianconera. Lo scetticismo sul suo conto, considerata l’inesperienza assoluta nel ruolo di tecnico, si trascina per l’intera stagione, concludendosi con l’esonero.

La scommessa della dirigenza bianconera, non può quindi dirsi riuscita. L’annata della vecchia signora, tutto sommato, non si rivela però fallimentare, considerando che Pirlo riesce a portare a casa ben 2 trofei, sui 4 disponibili.

Nelle competizioni principali, campionato e champions league, la Juventus non riesce però neanche a essere competitiva. In Italia, il dominio si ferma a 9 anni. Non arriva il decimo scudetto consecutivo e per pochissimo non sfuma addirittura anche la qualificazione alla prossima edizione della Champions. C.Ronaldo segna a raffica, vincendo la classifica cannonieri della serie A. Cuadrado è stratosferico, sforna una quantità industriale di assist, domina la fascia destra, salta continuamente l’uomo e gioca talmente bene che si meriterebbe una candidatura per il pallone d’oro. Chiesa si dimostra un grandissimo acquisto, già decisivo e con la mentalità per militare in un grandissimo club. Si rivaluta, dopo un anno anonimo sotto la guida di Sarri, il brasiliano Danilo. Oltre loro, gli altri deludono tutti: A.Sandro rimane un lontano parente di quello ammirato il primo anno di Juve, Bonucci inizia ad avvertire qualche acciacco di troppo come Chiellini, Demiral si infortuna gravemente, De Ligt manca per buona parte dell’inizio della stagione. I principali problemi si notano però in mediana, con Rabiot tra poche luci e tante ombre, Arthur tormentato da problemi fisici che ne limitano il rendimento, Bentancur altamente deludente, Ramsey invisibile, Bernardeschi al limite del grottesco. Si mette in mostra McKennie ma senza neanche troppa continuità. Qualche lampo lo offre Kulusevski ma sono anche tante le sue partite sottotono. Morata sembra partire bene ma delude alla lunga. Il più grande rammarico rimane però Dybala, non avendolo potuto schierare per alcuni mesi, trovandosi senza il 10 della rosa con un conseguente potenziale offensivo monco.

Pirlo chiude il campionato al quarto posto, centrando la qualificazione in Champions League soltanto all’ultima giornata a causa del suicidio del Napoli, che si fa fermare sul pari dal Verona. Un gol di Faraoni consente ai bianconeri di evitare l’inferno dell’Europa League, beffando così i partenopei al fotofinish. Troppi i punti i persi contro le piccole dalla vecchia signora, che mantiene un bilancio in equilibrio contro le big nostrane.

L’ex numero 21 della Juventus prova a imbastire una tattica piuttosto rivoluzionaria e innovativa. Lo schieramento dei bianconeri prevede infatti di impostare con la difesa a 3 e difendere a 4. In fase di possesso, un terzino deve così spingersi in zona avanzata, con l’esterno di centrocampo dallo stesso lato ad accentrarsi diventando un trequartista. In fase di non possesso palla, si difende invece con un 4-4-2 con il terzino che arretra e il trequartista che torna a fare l’esterno di centrocampo. Fisse invece le punte, i due mediani, i due centrali, il terzino bloccato e l’esterno dal suo lato incaricato principalmente a offendere. Questa novità non è stata ben interpretata dai calciatori a disposizione in rosa, complice anche la mancata preparazione, dovuta al covid, che ha ristretto il calendario delle partite. L’idea di base era ottima a mio giudizio, permettendo a C.Ronaldo e Dybala di poter giocare in un attacco a due tra di loro o al fianco di Alvaro Morata. Si sarebbe anche risolto il problema di un centrocampo sulla carta modesto, che a due però ha avuto ulteriori problematiche. La difesa ha infondo ben retto e Cuadrado è stato un terzino straordinario nello svolgere quel compito così tanto dispendioso. Il centrocampista esterno/trequartista è invece mancato. Kulusevski è stato spesso utilizzato come punta, dato un reparto corto che ha subito defezioni di natura fisica, specialmente per quanto riguarda Dybala, con lo stesso Ronaldo costretto a non poter mai riposare. Ramsey, che sembrava per caratteristiche la pedina ideale in quel ruolo, non è mai sembrato neanche capace di reggere i ritmi di una partita, correndo pochissimo e non incidendo praticamente mai. Qualcosina di buono l’ha fatta Mckennie, al quale non si poteva però chiedere un ruolo da protagonista assoluto. Pirlo non ha mai smesso di credere nella possibilità di sviluppare gioco secondo questi dettami tattici ma quanto si aspettava di vedere è risultato troppo sporadico.

In Champions i bianconeri riescono a vincere il loro girone davanti anche al Barcellona, assicurandosi un sorteggio favorevole per gli Ottavi. Pesa così davvero tanto l’eliminazione subita dal Porto, dopo quella col Lione dello scorso anno, sempre agli Ottavi di finale, quando nei cinque anni di Allegri si erano raggiunti ben altri risultati in Europa. Sfortunata e rocambolesca la doppia sfida coi portoghesi che onestamente ho in larga parte cancellato.

Le glorie della Juve 2020/2021 arrivano dalle altre due competizioni che ne impreziosiscono ulteriormente il ricco albo d’oro, mettendo un ulteriore solco, in tutti i trofei nazionali, tra la vecchia signora e gli altri club italiani. In Supercoppa arriva il successo ai danni del Napoli. Nel primo tempo della finale disputata a Reggio Emilia, c’è una sola occasione da gol creata dal Napoli, con colpo di testa di Lozano neutralizzato da un grande intervento di Szczesny. Nella ripresa la Juve torna meglio in campo e diventa padrona del gioco, fino a trovare la rete del vantaggio con Cristiano Ronaldo, sugli sviluppi di un calcio d’angolo e una rocambolesca deviazione di Bakayoko. I partenopei, su un inaspettato calcio di rigore, hanno l’occasione per pareggiare i conti ma Insigne calcia fuori. Con Politano, al novantesimo, la formazione allenata da Gattuso riesce però a crearsi un’altra clamorosa palla gol, ancora una volta parata da uno strepitoso Szczesny che si supera con un provvidenziale intervento coi piedi. All’ultimo istante, su corner in favore del Napoli, la Juve riparte in contropiede e fissa il risultato sul 2-0 con Cuadrado che serve Morata che deposita in rete un attimo prima del triplice fischio finale.

In coppa Italia, l’avventura bianconera, inizia agli Ottavi contro il Genoa. Guardando svogliatamente questa sfida, coinvolto inaspettatamente da una dolce, sentita e prolungata telefonata che ingloba e coinvolge, mi aiuta l’iniziale atteggiamento della mia Juve che si porta subito in vantaggio di due reti nei minuti iniziali. Kulusevski apre le danze su assist mancino di Chiellini, e lo stesso svedese, pochi minuti più tardi, manda Morata in porta che non sbaglia e raddoppia. Czyborra accorcia le distanze ma la Juve sembra in dominio, dando l’impressione di poter aumentare le distanze da un momento all’altro. A circa un quarto d’ora dalla fine, inizio però a preoccuparmi. Melegoni trova un eurogol e rimette i conti in parità. La sfida arriva ai supplementari, il Genoa cerca di difendersi con le unghie e con i denti ma nulla può quando Rafia si gira e trova il gol del 3-2. Grande esultanza per l’under 23 e Juventus ai quarti dove trova la SPAL. Non c’è storia tra i bianconeri e una compagine impegnata nel campionato di serie B. Senza fatica, i bianconeri si impongono così per 4-0. Morata dagli 11 metri sblocca il match, dopo che Rabiot era andato a conquistarsi il calcio di rigore. Un violento mancino di Frabotta taglia le gambe ai ferraresi con Kulusevski e Chiesa a mettere le loro firme sul tabellino dei marcatori per consentire alla squadra di Pirlo di dilagare. In semifinale la vecchia signora è attesa dall’inter di Conte. La gara di andata si disputa a Milano e i nerazzurri partono molto forte, portandosi in vantaggio con Lautaro Martinez, ben servito da uno straripante Barella. Un’ingenuità di Young regala un rigore alla Juve per fallo su Cuadrado. Ronaldo si presenta dagli 11 metri e insacca alle spalle di Handanovic. Un pasticcio difensivo di Bastoni regala il vantaggio ai bianconeri, con Cristiano Ronaldo che ne approfitta e sentenzia ancora una volta il club dei cinesi. Succede tutto nel primo tempo, con la ripresa che offre soltanto due sussulti con interventi provvidenziali da parte di Demiral e Buffon, rispettivamente su Sanchez e Darmian. Al ritorno, alla Juventus basterebbe anche perdere subendo un solo gol per qualificarsi. Pirlo legge molto bene la gara e affronta il solito Conte senza lasciargli campo per i suoi contropiede. Difendendo bassa, la Juve blocca le sortite offensive dei nerazzurri che non riescono a trovare la via della rete. Lo 0-0 conclusivo esalta De Ligt e compagni che conquistano la finale. La coppa Italia, la Juventus la conquista battendo all’ultimo atto della manifestazione l’Atalanta di Gasperini. Il match si presenta equilibrato e alla mezzora lo sblocca Kulusevski col suo mancino a giro. I bergamaschi reagiscono e pochi minuti prima del duplice fischio arbitrale trovano il pari con lo scatenato Malinovskyi, sfruttando la perdita del possesso bianconero in fase d’uscita. Nella ripresa gli orobici non riescono più a reggere il ritmo partita dei bianconeri che prendono il sopravvento nel dominio del gioco e sfiorano il vantaggio in più occasioni. Gollini effettua due buoni interventi e Chiesa colpisce un palo dopo uno splendido assist di tacco di Cristiano Ronaldo. Il figlio di Enrico Chiesa (col quale Buffon conquistò una delle coppa Italia vinte in carriera) l’istante prima di venir sostituito si fa perdonare avviando un’azione che conclude insaccando in rete, con la collaborazione di Kulusevski che restituisce un uno due che imbambola la difesa della Dea e consegna il trofeo nelle mani della vecchia signora, che festeggia e si gode il trionfo aggiungendo quest’altra coppa alla propria ricchissima collezione.

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I voti conclusivi ai 20 club della serie A 2020/2021

Juventus: Dopo 9 lunghi anni la Juventus non si conferma campione d’Italia e neanche lotta per lo scudetto. La gestione Pirlo è disastrosa e a pochi minuti dalla fine del campionato la vecchia signora è quinta. Soltanto un gol di Faraoni consentirà ai bianconeri di avanzare di una posizione, qualificandosi per la prossima edizione della Champions League. Nel torneo europeo i torinesi riescono a vincere il loro girone ai danni del Barcellona ma escono subito dopo in favore di un modesto Porto. La stagione viene però ben salvata dalla conquista degli altri due trofei: la supercoppa italiana ai danni del Napoli e la coppa Italia, strapazzando l’inter in semifinale e l’Atalanta nella finalissima. Voto: 6,5

inter: Più di un decennio dopo, i nerazzurri tornano a vincere un trofeo che non sia compreso in qualche amichevole estiva. Conte trascina la seconda squadra nata a Milano verso la vetta, senza trovare avversari alla portata con la Juve fuori gioco in questa strana annata condizionata dal covid, con tutte le gare disputatesi a porte chiuse. In coppa Italia fa male la scoppola presa dai bianconeri e ancor di più provoca dolore l’eliminazione in Champions League, addirittura da ultimi nel girone. Neanche il tempo di godersi il singolo titolo che Conte annuncia l’addio e i problemi finanziari sorgono, lasciando intendere a un chiaro ridimensionamento in atto che porterà alle cessioni di Hakimi e Lukaku. Voto: 7,5

Milan: Pioli riesce a dar seguito al buon finale di stagione precedente, iniziando il campionato ad altissimi ritmi. Incredibilmente primi a inizio stagione, i rossoneri calano alla distanza, rischiando addirittura di compromettere il quarto posto. All’ultima giornata, arriva il colpo di coda dei milanesi che chiudono al secondo posto in classifica. Decisivi i ben 20 rigori ricevuti che hanno fatto di Kessie un assoluto goleador. Preziosa la spinta di Theo Hernandez, le parate di Donnarumma, qualche gol di Ibrahimovic e il rendimento complessivo di una squadra che non si è mai risparmiata e ha lottato insieme per tornare, dopo un’eternità, a posizionarsi sopra al quinto posto in serie A. Voto: 7

Atalanta: L’addio di Gomez a Gennaio dopo un litigio con Gasperini e il calo evidente di Ilicic, non hanno fermato la Dea che cambiando gli interpreti (trovando in particolare in Malinovskyi e Pessina gli ideali sostituti) è riuscita a concludere al terzo posto in graduatoria. Buono anche il cammino europeo degli orobici, terminato al cospetto del Real Madrid, e la finale di Coppa Italia raggiunta e poi persa con la Juve. Immancabili i contributi realizzativi degli ottimi Muriel e Zapata. Bene difensivamente Romero, si è confermato stratosferico Gosens e fondamentale il supporto in mediana di De Roon e Freuler. Voto: 7+

Napoli: I partenopei collezionano brutte figure in ogni competizione, concludendo con la più clamorosa, all’ultima giornata, lasciandosi fermare sul pareggio dal Verona, compromettendo così il ritorno in Champions ormai ad un passo. Gattuso viene immediatamente esonerato e la rosa criticata, considerato l’apporto superiore che da molti ci si aspettava ad inizio anno. Bene solo Insigne, oltre a Lozano nella prima parte di campionato e Zielinski nella seconda. Altalenanti Politano, Di Lorenzo e Koulibaly. Troppo tempo fuori Osimhen e ormai in irrimediabile declino Mertens. Voto: 5

Lazio: S.Inzaghi gioisce per aver superato all’ultimo brivido il girone di Champions League ma viene brutalmente sbattuto fuori agli Ottavi dal Bayern Monaco. In campionato non sono i biancocelesti dello scorso anno. A causa del doppio impegno europeo, Immobile e compagni perdono tanti punti per strada. Crolla la difesa, senza che riesca a salvarsi neanche il solito Acerbi. Tengono a galla i capitolini solo Milinkovic Savic e Luis Alberto con dei loro sporadici lampi. L’attacco è meno prolifico dell’anno scorso e la mediocrità di una rosa scarsamente puntellata si nota per un sesto posto finale piuttosto deludente. Voto: 6,5

Roma: Fonseca trascina la Roma fino alla semifinale di Europa League, dove viene però eliminata dal Manchester United, subendo l’ennesima goleada dai red devils. In campionato l’andamento è molto chiaro. I giallorossi battono le piccole ma le perdono tutte contro le grandi. Nessun big match viene vinto tranne un derby nel finale, quando si riducono anche le vittorie contro gli avversari di bassa classifica. Mkhitaryan il mattatore, molto buona anche la stagione di Veretout, Spinazzola e Mancini. Troppi problemi con Dzeko e più spazio del previsto per Borja Mayoral. Altalenante Pedro, piuttosto mediocre il resto della squadra. La deludente annata si conclude con l’esonero di Fonseca e l’ingaggio di un ridimensionato Mourinho. Voto: 5,5

Sassuolo: Strepitosi gli emiliani che giocando un calcio spettacolo si posizionano all’ottavo posto, come primi sotto le grandi. De Zerbi fa divertire tutti, con i nero verdi sempre molto propositivi. L’assenza prolungata di Caputo e l’apporto al di sotto delle aspettative di Boga, viene supplito da un gigantesco Berardi, che si conferma ancora una volta attraverso una super stagione. Inizia a dare ottimi segnali il giovane centravanti Raspadori, come spicca in mediana Locatelli ormai dal cartellino costosissimo. Djuricic parte a bomba ma si spegne nel corso della stagione, lasciando spesso spazio a Traoré. Tante le parti in rampa di lancio, dopo la crescita esponenziale di questo club dove si è chiaramente tanto saputo lavorare bene. Voto: 7+

Sampdoria: Solita squadra arcigna e difficile da affrontare, la Samp di Ranieri non fa sconti a nessuno e macina tanti punti, togliendosi anche soddisfazioni contro avversari più blasonati. La tenuta difensiva blucerchiata è invidiabile, per le sortite offensive c’è invece gloria per tutti, col mister romano che sfrutta a pieno la novità delle cinque sostituzioni. A turno, trascinano il club di Genova: Quagliarella, Keita, Jankto, Verre, Candreva, Daamsgard. Sempre presente Augello, come il portiere Audero. Voto: 7

Verona: A inizio stagione c’è chi parla di retrocessione per gli scaligeri ma il lavoro di Juric è encomiabile e paga bene. Le tante partenze, specialmente in difesa, non minano la protezione a Silvestri, che si conferma uno dei migliori portieri, meno battuti, dell’intera categoria. Faraoni e Lazovic continuano a volare, anche se prepotentemente insediati da uno straripante Dimarco. Si mette particolarmente in luce Zaccagni, che disputa la stagione della consacrazione. L’Hellas con un centravanti di peso e maggior qualità in mediana, avrebbe potuto condurre anche un campionato da protagonista. In attacco è tanto mancato l’apporto di un deludente Kalinic, affiancato solo a Gennaio da un discreto Lasagna. L’intensità dei veronesi è stata spesso l’arma in più di questa squadra che dal prossimo anno dovrà cercare di continuare a confermarsi senza il suo amato condottiero Juric. Voto: 7

Genoa: Il grifone parte male ma con l’ennesimo ritorno in panchina di Ballardini, spicca il volo. Segnano le punte: da Scamacca a Shomurodov, conclude la stagione sopra le righe Zappacosta ed è prezioso il contributo in mediana di Badelj. Senza spiccate individualità, i rossoblu si salvano in piena tranquillità tra tante soddisfazioni, dimostrandosi un avversario tostissimo. Voto: 7

Bologna: Gli emiliani giocano un calcio propositivo che porta Soriano a segnare più del previsto. Il mercato non regala in dote a Mihajlovic un forte centravanti, così tra le punte le reti sono modestamente suddivise tra Palacio e Orsolini. Bene i mediani anche se nessuno tra Schouten, Svanberg e Dominguez riesce in un vero salto di qualità. Disastrosa invece la difesa, che paga l’assetto tattico offensivo. Deludente anche Barrow che non conferma quanto fatto vedere di buono nel finale della passata stagione, nonostante a furia di fare il centravanti, qualche pallone lo metta anche dentro. Vittima sacrificale contro ogni grande, senza nemmeno opporre troppa resistenza, il Bologna ottiene gli indispensabili punti salvezza contro gli avversari di più basso rango, portando a termine un campionato anonimo. Voto: 6

Fiorentina: Vlahovic trascina a suon di gol i viola alla salvezza. Peggiorano le prestazioni solitamente garantite da Milenkovic, Caceres e Pezzella, vedendo la difesa dei gigliati crollare con la complicità di un modesto Amrabat dal quale ci si aspettava di più. In esorabile declino ormai Ribery che non ha più l’età per competere fisicamente a certi livelli. Parte bene Biraghi per poi spegnersi e l’impressione che senza l’esplosione del 9 sarebbe potuta essere retrocessione, rimane lampante. Voto: 5,5

Udinese: Molto bravo Gotti nel dirigere un’eccellente fase difensiva. Nuytinck su tutti, quando in condizione atletica ottimale, si conferma un signor difensore. Apporto al solito costante da parte di Larsen sulla destra, modestissime le punte, eccezionali invece le mezzali che compongono quasi l’intero reparto offensivo dei friulani. Pereyra e, ancor più De Paul, illuminano per tutta la stagione, mettendosi in mostra a furia di gol e assist, aumentando la loro valutazione sul mercato e consentendo all’Udinese di ottenere l’obiettivo stagionale. Voto: 6,5

Spezia: Italiano si mette in luce per le sue qualità da allenatore. Il suo Spezia gioca molto bene e dopo aver raggiunto la serie A ai play off la mantiene, contro ogni pronostico. Nzola trascina coi suoi gol i bianconeri, che non patiscono così l’infortunio accorso a Galabinov. Si distingue anche Giasy, essenziale come Verde. Pobega, Maggiore ed Estevez, si dimostrano centrocampisti di categoria. Italiano cambia spesso l’11 titolare ma il risultato non cambia, lo Spezia è avversario ostico per chiunque, capace di grandi imprese. Voto: 7

Cagliari: Di Francesco delude ogni minima aspettativa e i sardi sprofondano in classifica. Con il subentro in panchina di Semplici, il Cagliari si riprende lentamente fino a un filotto di vittorie consecutive che la solleva definitivamente allontanandola da terzultimo posto. Pavoletti meglio di Simeone, nonostante i gol arrivino principalmente dalla seconda punta Joao Pedro. Bene Nandez, modesto il supporto del tanto desiderato ritorno di Nainggolan, come quello di tutti gli altri rossoblù. Voto: 6

Torino: I granata rischiano clamorosamente di retrocedere. Si salvano soltanto a pochi giorni dall’ultima giornata e grazie al tracollo del Benevento di Filippo Inzaghi. Belotti segna ma poi si blocca nel girone di ritorno, la difesa subisce continue goleade, con anche la complicità di Sirigu. Nel reparto avanzato manca chi sappia andare in rete, come è assente la qualità a centrocampo. Qualcosa riesce a portarla Mandragora a Gennaio e si rivelano utili i tornanti: dal giovane Singo, al veterano Ansaldi, passando per Vojdova. Giampaolo fallisce anche questa avventura e i punti finali per mantenere la categoria, li porta Nicola. Voto: 5

Benevento: Partono forte i campani che sono capaci anche di qualche impresa. F.Inzaghi prova a dar seguito alla straordinaria promozione mantenendo la categoria ma la “strega” crolla nel finale, quando avrebbe dovuto metterci più tenacia. Ben organizzata la fase difensiva, anche se a volte si scioglie per via di scarse individualità, per quanto Glik cerchi di portare esperienza. Viola è spesso assente ma fa il suo quando viene lanciato in campo. Tanta corsa e sostanza per gli altri ma poca tecnica. In avanti Lapadula segna i suoi gol ma non bastano. Voto: 5

Crotone: I “pitagorici” partono condannati alla retrocessione e non danno mai l’impressione di poter sovvertire il verdetto anticipato. Con Stroppa prima e Cosmi in seguito, riescono comunque a divertirsi, giocando un calcio propositivo. Cordaz subisce una valanga di reti, complice anche la pochezza dei singoli del reparto arretrato. In attacco Simy segna a raffica, come anche Messias riesce a mettersi in bella mostra. Di categoria inferiore praticamente tutto il resto della rosa. Voto: 4

Parma: La grande delusione sono gli emiliani che non riescono a prendersi i tre punti nei match di serie A con Liverani e non si risollevano neanche col rientro in panchina di D’Aversa. Kucka è l’unico a lottare, tutti gli arrivi dal calciomercato estivo si rivelano inappropriati alla categoria, come neanche un movimentatissimo mercato invernale riesce a cambiare le sorti dei gialloblu che retrocedono senza riuscire a opporre resistenza. Voto: 3.5

Better Call Saul

Better Call Saul è una serie tv composta 6 stagioni da 10 episodi, con soltanto l’ultima che ne conta 13. Si tratta dello spin-off di Breaking Bad, che racconta una storia antecedente alla narrazione della serie madre ma anche alcune parti seguenti. Il protagonista è l’avvocato Saul Goodman che dal 2015 al 2022 ha regalato al pubblico il miglior prodotto seriale in circolazione.

Al centro della prima stagione, vi è il rapporto tra i fratelli McGill. Jimmy è il più giovane, la pecora nera della famiglia, che da ragazzo si divertiva a fare piccole truffe con l’amico Marco, a vivere la notte e agire al di fuori della legge. Chuck è invece l’integerrimo avvocato di successo che, alla legge, ha dedicato tutta la sua vita, rigando sempre dritto, nella sacralità dell’ordinamento che difende, spinto da una morale ferrea e inscalfibile. Dopo l’ennesima bravata di Jimmy, il fratello lo aiuta mediando da suo difensore legale, a patto che lui si trasferisca e inizi a lavorare alla corrispondenza postale nel suo grosso studio. Jimmy ci tiene all’opinione che Chuck possa aver di lui e decide di tentare in ogni modo di ristabilire la sua immagine agli occhi del fratello. Inizia così a rigare dritto, provando in ogni modo ad attirarsi le sue simpatie, facendo per anni tutto ciò che pensa che il fratello approverebbe. Di nascosto, spinto dal poter far lui una gradita sorpresa, studia, si laurea e si abilita alla professione di avvocato. Spera di poter conquistare la stima e l’ammirazione di Chuck, che invece disprezza quella facoltà online che frequenta, preoccupato di come Jimmy possa utilizzare la legge, facendo leva sui suoi metodi poco ortodossi e al limite del consentito per farsi strada. Chuck non dimentica il passato di suo fratello e non intende mischiarsi con lui, gli piace che stia al di sotto, non lo considera come un collega. Jimmy, però, a sentirsi inferiore non ci sta, conscio delle sue ambizioni e qualità, tende sempre a spingersi oltre, senza limitarsi al compitino. Uno come Jimmy non si può sottomettere, il fattorino non può pertanto essere la sua professione di tutta una vita. Chuck sembra invidiargli infondo il modo di godersi le giornate e anche il sapersi dimostrare più arguto e intelligente di lui. Le offese di Chuck, la sua mancata approvazione dopo tanti anni per renderlo fiero di lui (al punto da prestarsi nel badargli nella sua fobia dell’elettricità, vivendo barricato in casa senza alcun aggeggio elettronico attivo, con tutto ciò che ne consegue), navigando soltanto in quella direzione (vedendosi rifiutato a ogni costo, anche rifiutando un caso di milioni di dollari perché presumerebbe la collaborazione da colleghi avvocati tra i due) induce Jimmy a ribellarsi e tornare a riavvicinarsi al suo lato oscuro. Qualche piccola truffa divertente perpetrata con ironia in compagnia del vecchio amico e di Kim, sembrano il preludio alla “trasformazione” in Saul Goodman. Kim Wexler è una brillante avvocatessa che lavora per il grosso studio di Chuck e del socio Hamlin. Tra lei e Jimmy c’è molta affinità e un’amicizia al limite della relazione. Imperversa la scena anche Mike, nelle vesti di un parcheggiatore del tribunale, approfondito attraverso la storia di suo figlio: ucciso da dei poliziotti perché restio dal farsi corrompere, vendicato da Mike che lo confida alla nuora. Tra Jimmy e Mike si creano sporadiche collaborazioni che li vedono aver entrambi a che fare con il trafficante di droga Nacho Varga. Gli omaggi alla serie madre, vengono elargiti in diversi frangenti. Ne è testimonianza la comparsa di un folle Tuco, il riferimento al Belize e molti altri. Il finale di stagione, vede sorgere in Jimmy la voglia di non voler più fare sempre la cosa giusta, sentendosi frenato dal giudizio che possa avere il fratello. Sulle gasanti note degli ACDC, Jimmy sembra adesso determinato a lasciarsi andare, sfoderando le sue attitudini naturali, senza tenere a bada quella sua capacità di prendersi gioco degli altri al di fuori delle regole, tramite la sua strepitosa parlantina, conoscenza legale acquisita e intraprendenza nell’attuare idee geniali. Fermarsi e non assecondare la sua parte più esuberante non lo ha condotto a nulla, Chuck lo disprezza allo stesso modo nonostante tutti i suoi faticosi tentativi, a questo punto nella testa di Jimmy scatta la consapevolezza che sia meglio esser pazzi per conto proprio anziché savi per volontà altrui (come scritto in un aforisma anche di Nietzsche), agire per sé stessi piuttosto che accontentare qualcun altro.

La seconda stagione parte con Jimmy che, per rendere Kim fiera di lui, accetta di lavorare in un grosso studio per seguire il caso contro la casa di cura. All’interno di un team, dovendo rigare dritto e seguire regole ferree, si annoia ben presto, non riuscendo a dar sfogo alla sua indole. Le ventate di benessere gli derivano da scherzi che compie coinvolgendo la stessa Kim, che si diverte con lui, sentendosi infondo attratta dalla sua estrosità e voglia di prendersi beffa degli altri. Jimmy decide di non cedere a quelli che denomina come la fallacia dei costi irrecuperabili e scavalca in ufficio i suoi superiori, che vede come poco originali ed eccessivamente ingessati. Si sente il migliore e infatti ottiene grandi risultati grazie alla sua stravaganza. Fa trasmettere uno spot televisivo per attirare maggiore clienti tra gli anziani coinvolti nella causa contro la casa di riposo e, nonostante il successo dell’iniziativa, viene richiamato per i suoi metodi, sempre al di fuori del recinto in cui dovrebbero rimanere. Chuck, che considera il fratello come un alcolista che non ammette il suo problema con l’alcol, uno sfrontato convinto che il fine giustifichi i mezzi (al punto che continuerebbe sempre a osare finché non riuscirebbe più a farla franca come i giocatori d’azzardo che non si fermano fino a perdere tutto), per frenarlo nel vedergli utilizzare la sacralità del diritto con disonore, decide di punire Kim per ferirlo, esercitando il suo potere di capo dell’azienda per declassarla di grado. Chuck si dimostra invidioso e geloso del fratello che, nella sua pochezza, riesce a risultare sempre brillante e arguto. L’ex moglie di Chuck si divertiva ad ascoltare Jimmy, così come il padre che non credeva come il suo figlio più piccolo lo truffasse rubandogli i soldi dalla cassa. La madre non era da meno, preferendo sempre Jimmy tra i suoi figli, come testimoniato sul letto di morte, quando lo cercava pur avendo difronte Chuck. Jimmy nel mentre decide di mettersi in proprio per esercitare la professione di avvocato a modo suo: libero da un ambiente omologato, sempre a tinta unica. Attua così dei comportamenti divertenti quanto fastidiosi per i suoi colleghi, al fine di ottenere il licenziamento, che gli consentirebbe di tenere un bonus economico, a differenza di una lettera di dimissioni. Raggiunto finalmente il suo traguardo, vorrebbe Kim dalla sua parte, che accetta soltanto tenendo separate le loro attività anche se condividendo lo studio. Finalmente libero di poter cercare la scorciatoia più profittevole, attuando validi stratagemmi secondo la propria morale, senza dover cercare di essere la persona voluta prima da Chuck e poi da Kim, Jimmy decide di vendicarsi di suo fratello che, per tarpare le ali a lui e alla sua innamorata, si sforza per far perdere un ambito caso a Kim. La risposta geniale di Jimmy è un piano ben congeniato per spingere Chuck a commettere un piccolo errore, manomettendo dei documenti. La conseguenza è che il caso della Mesa Verde torni nelle mani di Kim. La pessima figura ottemperata, non dà pace a Chuck che non accetta di aver sbagliato e intuisce il sotterfugio utilizzato da Jimmy. Per provarlo, dopo esser finito in ospedale nel disperato tentativo di trovare delle evidenti prove, fa leva sull’affetto di Jimmy nei suoi confronti, mette in scena un’immorale scenetta, fingendosi impazzito e rassegnato a chiudere col lavoro isolandosi nella sua malattia, certo che la bontà d’animo di Jimmy, per spronarlo, lo condurrà a confessare il suo crimine, che meschinamente registra. Sul fronte Mike, assistiamo all’arresto di Tuco, ben congeniato per guadagnare di più in maniera tale da accontentare una nuora troppo esigente. Hector però convince Mike, sotto minaccia della nipotina, a far scagionare Tuco. L’ex poliziotto, per non restare pedina in mano ai Salamanca che sanno come colpire la sua famiglia, decide di studiare una vendetta che gli consente di rubargli abilmente del denaro. Spingendosi a voler tentare di uccidere Hector, per il suo ordine di aver assassinato un uomo innocente, verrà fermato soltanto da un gesto inaspettato, possibilmente riconducibile (per i più attenti fan della serie madre Breaking Bad) a Gus Fring.

La terza stagione continua a sorprendere, attraverso dialoghi sempre più interessanti, contornati da sfumature e stati d’animo in grado di immedesimare e lasciar riflettere. Mike, per vendetta personale e giustizia per gli orrori commessi da Hector Salamanca, riesce a danneggiarlo, guadagnandosi sempre più la stima di Gustavo Fring, che decide di aiutarlo a riciclare il suo denaro sporco, facendolo entrare a lavorare per la Madrigal gestita da Lydia, ben nota nella serie madre Breaking Bad. A complottare contro Hector, vi è anche Nacho, intenzionato a colpirlo sostituendo le sue pillole per il cuore, al fine di fermarlo dall’immischiare suo padre nella malavita. Quando il piano di Nacho ottiene il successo sperato, nel ricambiare le pillole contraffatte per causargli un arresto cardiaco, Gus sembra accorgersene restandone in silenzio. Dal lato di Jimmy, notiamo come vi sia tanto affetto per il fratello che invece continua a covare soltanto risentimento, sperando che la ruota giri come ritiene giustamente inevitabile, con chi gioca sporco che finirà col pagarla amaramente. L’intento di Chuck è di far arrestare Jimmy per furto, ipotizzando una sua intrusione in casa per distruggere il nastro che fa in modo di far capire a Jimmy di aver registrato. Il suo piano malefico ha successo, con la conseguente mossa del fratello, in combutta con Kim (che decide di restargli vicina, considerandolo i suoi costi irrecuperabili in termini emozionali), di incastrarlo, facendolo passare per malato mentale, con l’ausilio di Huell che sbattendogli contro gli inserisce una batteria carica nella giacca che Chuck non nota, facendo apparire logico che la sua malattia non sia vera ma solo dentro la sua testa. Chuck impazzisce e sputa tutto il suo odio contro il fratello, mettendosi in cattiva luce dinanzi a tutti, non ultima la sua ex moglie, chiamata da Jimmy per destabilizzarlo. Jimmy se la cava così con un solo anno di sospensione, evitando la radiazione. Prova così a darsi agli spot pubblicitari, per guadagnare quanto basti per mantenere lo studio legale insieme a Kim e non veder compromesso il loro sogno. Sfrutta il nome di Saul Goodman ma i soldi tardano ad arrivare. Jimmy prova così a convincere le vecchiette in causa con la casa di riposo ad accettare la richiesta proposta dalla controparte, per intascare subito la sua quota. Per farlo scredita agli occhi delle amiche Irene, per poi tornare sui suoi passi, quando una volta raggiunto il suo obiettivo vede che lei resta isolata, allontanata da tutti. Per togliersi di testa che causerà sempre guai a chi gli gravita intorno (come si sente dire da Chuck e teme si estenda su Kim) si compromette del tutto con quelle persone della terza età, passando per truffatore, alfine di far tornare nella sua cerchia di amicizie Irene. Un harakiri a fin di bene che gli fa dimenticare per un attimo come Kim – pentita di aver affossato in quel modo Chuck – combattuta tra la sua indole simile a Jimmy e la sua moralità (al punto che si lava i denti spasmodicamente, come a volersi ripulire anche interiormente ogni volta che spalleggia il suo innamorato), abbia rischiato di morire per un colpo di sonno mentre guidava l’auto, a causa del troppo lavoro dopo aver preso in carico un secondo cliente oltre la mesa verde, che perde subito, così come anche il loro studio che non è più sostenibile e viene subaffittato. Chuck, nel tentativo di curarsi da solo, una volta costatato che il suo problema sia di testa, si trova a fare i conti con la compagnia assicurativa che, aizzata per vendetta da Jimmy, vorrebbe affiancargli un tutore o aumentare il premio a tutto lo studio associato. Chuck ha in mente un piano di azione che cozza con le idee di Howard. Quest’ultimo, stanco del suo socio, decide di liberarsene una volta per tutte liquidandolo, al costo di pagare lui una parte dell’importo complessivo. Per sbeffeggio, lo lascia applaudire e osannare, spedendolo di fatto in pensione forzata. Allontanato dal suo lavoro, intenzionato a non volersi riavvicinare a suo fratello che prova a ricucire il rapporto mostrandosi sinceramente pentito, Chuck si ritrova solo e ha una verticale ricaduta. In trappola della sua stessa rigidità mentale, senza sfoghi professionali o relazionali di alcuna sorta, la fissazione per l’elettricità lo conduce ad abbattere i muri di casa per trovare e staccare ogni filo, fino a distruggere l’intero impianto elettrico e, in preda alla follia, a prendere a calci un tavolo (come ultimo tenue tentativo di restare ancorato alla vita) fino a far cadere per terra una lanterna (simbolica per come da piccolo leggeva i libri a Jimmy ed era stata fotografata da Mike per compiere l’espediente di Jimmy utile a coinvolgere l’ex moglie di Chuck nel processo per evitarsi la radiazione dall’avvocatura) che manda in fiamme l’intera abitazione, con lui al suo interno.

La quarta stagione è molto incentrata sul rapporto tra Jimmy e Kim. La morte di Chuck non preoccupa Jimmy che si sente subito sollevato dalla confessione di Howard, sull’averlo licenziato, buttando la croce della colpa sul socio di suo fratello. Kim è dalla sua parte, rincarando la dose contro Howard. Come se si fosse liberato dall’ombra di Chuck, Jimmy si prende gioco di chi gli propone un lavoro da lui richiesto e idealizza una truffa per sottrarre loro una statuetta di valore, senza che se ne rendano nemmeno conto. Per il fratello (che bada bene a lasciargli il minimo possibile in eredità, prediligendo l’ex moglie e un premio per l’avvocatura) non avverte più alcuna sensibilità, come dimostra la lettura di una bellissima lettera scritta da Chuck quando Jimmy lavorava come fattorino. Kim se ne rende conto, avvertendo il bisogno di prenderne le distanze, prodigandosi per far del bene, preferendo dar priorità alla difesa della gente comune, più che alla Mesa Verde. Jimmy, per tenersi buona Kim, l’unica ancora in grado di porgli dei freni, decide di accettare un lavoro come addetto alle vendite in un negozio di cellulari. La monotonia di quell’impiego, lo sprona a ideare un business mirando a chi ha bisogno di privacy nel telefonare, vendendo loro cellulari non rintracciabili usa e getta. A minare la sua idea ci provano dei ragazzini che lo derubano, ai quali la fa pagare, facendoli spaventare con l’aiuto di Huell. Kim, nel mentre, sembra andare in direzione del tutto opposta. Decide così di prenderne le distanze, distruggendo la possibilità di condividere nuovamente lo studio insieme a lui, facendosi così associare da Schweikart & Cokely, per comandarne l’area bancaria con l’aiuto di altri avvocati e il tempo per dedicarsi ai casi d’ufficio mettendo apposto la sua coscienza realizzando qualcosa laddove è brava, guadagna, aiuta gli altri e si appassiona. Il richiamo a complottare al di fuori delle regole insieme al fidanzato, spinge però Kim a provare ancora quella sensazione di onnipotenza, avendo la meglio su un’astioso pubblico ministero nella difesa di Huell, attraverso l’inganno in un piano geniale da lei congeniato e proposto a Jimmy che lo esegue magistralmente. I due si ripetono anche per ottenere un favoreggiamento per la Mesa Verde grazie a una recita ingannatrice. Riscoppia così la passione tra chi vendeva di notte telefoni in tuta e chi elegante si presenta ogni mattina in un raffinato ufficio. All’esame di riammissione come avvocato, Jimmy viene respinto per esser ritenuto non sincero. Sfoga così la sua rabbia su Kim, accusandola di ritenerlo anche lei un farabutto con cui spassarsela di tanto in tanto, senza però scendere mai del tutto a patti, dall’alto della sua forzata moralità. Kim si offende, ricordandogli di essergli sempre rimasta vicina e dalla sua parte. Insiste così anche in quest’occasione, proponendogli di indire un’onorificenza per Chuck in maniera tale da sembrare più sincero alla giuria e vincere il ricorso per farlo tornare a esercitare la professione. Jimmy, presenziando al voto per il vincitore del premio per l’avvocatura proposto da Chuck nel suo testamento, parla a una giovane ragazza che gli ricorda lui stesso, la quale viene scartata dalla giuria nonostante le sue insistenze, intimandola ad andare oltre le etichette che le possano affibbiare per i suoi errori passati, suggerendole energicamente di farsi strada da sola a ogni costo e con qualunque mezzo tollerato o meno. Il piano di Kim per il reintegro di Jimmy intanto sembra funzionare, fino a quando lui stesso effettua la sterzata finale, recitando una parte dove si mostra davvero affranto per suo fratello, ingannando ed emozionando tutti, Kim compresa. La spregiudicatezza con la quale si vanta, davanti a Kim, di aver preso in giro tutti quei sentimentaloni da strapazzo, essendosi sentito come invincibile, persino in grado di schivare proiettili, sbalordisce Kim che si rende conto di come Jimmy sia capace di prendersi gioco di tutti, lei compresa, andando oltre a quel limite che lei vuol credere di non essere in grado di oltrepassare. La mazzata finale, nello sconvolgimento di Kim nel vedersi dinanzi questa natura diabolica di Jimmy, si concretizza nel suo non voler lavorare più col nome McGill, dando così definitivamente vita a Saul Goodman. Parallelamente, Gus Fring si adopera affinché Hector riceva le migliori cure da dottori esperti, allo scopo di farlo rimanere cosciente per farlo render conto della vendetta che ha in mente contro i Salamanca, sempre più agguerriti dopo l’arrivo in città di Lalo. Nacho diventa un scagnozzo di Gus, sotto minaccia per il segreto inerente alle pillole scambiate per mettere fuorigioco Hector. Si rende così utile per far sterminare ai cugini Salamanca un clan rivale, il cui territorio rimasto libero finisce sotto il possesso di Gus. Per migliorare la qualità della metanfetamina venduta, Fring progetta di creare un laboratorio sotterraneo al cui interno far lavorare un professionista di chimica, già noto in Breaking Bad: Gale. Mike viene assunto come capo della sicurezza per gestire i lavori richiesti, i quali trovano un intoppo nella fuga dell’ingegnere capo che Mike è costretto a uccidere sotto inevitabile ordine di Gus.

La quinta stagione vede Saul partire forte nell’accaparrarsi numerosi clienti. Kim sembrerebbe volerne prendere le distanze, per finire puntualmente a stare al gioco di Jimmy che la diverte e consente di far giustizia secondo i suoi canoni, senza sottostare a rigide regole che a volte reputa ingiuste. Sentendosi con la coscienza sporca, Kim tenta di ripulirla dedicandosi ai casi pro bono, accantonando la Mesa Verde che tenta di sfrattare un vecchio dalla sua abitazione per costruire un suo insignificante call center. Per aiutare questo signore, pur trovandosi avvocato difensore della controparte, spinge Jimmy a tutelarlo. Saul lo fa a suo modo, scoprendo – tramite un investigatore privato che si intrufola in casa di Kevin – i segreti del padrone della Mesa Verde, arrivando a minacciarlo per ottenere lo spostamento della sede del call center, un risarcimento per danni morali al proprietario dell’appartamento e una cospicua somma anche per un’artista alla quale il padre di Kevin ne avrebbe copiato il logo. Kim, tenuta all’oscuro del piano del suo convivente, resta sbalordita, intuendo fino a che punto si spinga più in là Jimmy, anche a suo discapito. Capendo di non potersi fidare di lui, sentendosi presa in giro dalla solita scusa che lui agisca per tutelarla e non metterla in pericolo, ritiene che la loro relazione sia ormai a un bivio: o si lasciano o si sposano. Il matrimonio avviene in maniera del tutto anonima, formale, senza alcuno sfarzo. Lo scopo è che ci si possa dire la completa verità, coperti dalla legge che impedisce alla moglie di testimoniare contro il marito. Howard nel mentre decide di avanzare una proposta di assunzione nella HMM a Jimmy che, in risposta, gli scassa la macchina con delle palle da bowling e lo mette in imbarazzo al ristorante mandandogli due prostitute a fargli una scenata. Jimmy si sente superiore ad Howard, vivendo la sua richiesta come un’umiliazione, un favore non richiesto da chi lo guarda dall’alto verso il basso, mentre lui si sente forte, con dei poteri ultraterreni e in pieno delirio di onnipotenza glielo spiattella in faccia indignato dall’ipotesi di accettare quell’elemosina. Quando Howard lo racconta a Kim, lei scoppia a ridere e Jimmy si rende conto come la sua innamorata sia più fuori controllo di lui, dopo che gli propone di umiliare del tutto Howard, rovinandogli la reputazione e costringendo la HHM ad accettare il patteggiamento della Sandpiper per intascare il denaro spettante a Jimmy. Kim si licenzia e riesce a depistare Lalo quando gli si presenta in casa, in cerca di giustificazioni di quanto avvenuto nel deserto. Saul si era infatti recato a ritirare 7 milioni per pagare la cauzione di Lalo, suo assistito. Degli uomini assoldati da Bolsa per lasciare Lalo in prigione (precedentemente incastrato da Mike) ed evitare che continui a mettere il bastone tra le ruote a Fring, impoverendo anche i suoi affari, attaccano Jimmy che viene salvato da Mike, col quale si spinge a piedi oltre il deserto, con l’avvocato che riesce a sopravvivere solo perché motivato dalla voglia di tornare da Kim. Gus ha infatti altri piani di vendetta e con la collaborazione di Nacho (tenuto sotto scacco con la minaccia di colpire suo padre) dall’interno invia dei sicari a uccidere Lalo Salamanca e i suoi parenti. Dalla colluttazione a fuoco, l’unico superstite è proprio Lalo, che riesce a salvarsi la pelle, infuriato per il tradimento di Nacho e le menzogne di Jimmy (dettategli da Mike che gli fa capire come le sue azioni lo abbiano condotto a ritrovarsi in situazioni pericolose) e Kim (in piena combutta col marito e sempre più incline all’emularne la parte più oscura).

Nell’ultima stagione, Lalo tenta di nascondersi facendo credere a Gus di esser morto. Per ingannarlo si affida a un uomo che gli somiglia al quale aveva pagato la chirurgia dentale, per fargli avere le sue stesse impronte, che prontamente uccide dopo averlo fatto radere, mantenendo soltanto i baffi, in maniera tale da renderlo un sosia perfetto e non alimentare dubbi nei suoi nemici. Fring conserva però qualche sospetto sulla riuscita dell’operazione. Hector sembra troppo contento e questo lascia presagire che sia in contatto con Lalo, ancora vivo. Per anticipare le mosse dei Salamanca, Gus cerca di trovare Nacho per ucciderlo, evitando possa finire nelle mani di Lalo affinché possa usarlo contro di lui al cospetto di Don Eladio. Nacho si ritrova tallonato dai cugini Salamanca e dagli uomini di Gus, stanco di una fuga che non potrà mai avere seguito, decide di consegnarsi dopo aver stretto un patto con Gustavo Fring, che prevede la salvaguardia di suo padre. Mike gli dà la sua parola e Nacho si suicida dopo aver convinto Bolsa di esser stato assoldato da Alvarez dei “Los Odios” in Perù e aver sputato in faccia a Hector confessandogli di averlo ridotto lui sulla sedia a rotelle. Lalo, per incastrare Gus agli occhi di Bolsa ed Eladio, cambia strategia e punta sui tedeschi che hanno costruito il laboratorio di metanfetamina. Per entrarvi, sposta l’attenzione degli uomini di Gus a protezione della lavanderia sotto la quale è stato costruito il laboratorio su dei bersagli minori. Si reca da Kim e Jimmy, dove uccide Howard sbalordendo tutti e lasciando terrorizzati gli avvocati. Kim viene costretta a recarsi da Gus mentre Lalo si intrufola nel laboratorio di metanfetamine sgombro dalla sorveglianza, col solo Fring in persona che si rende conto del piano di Lalo e lo va ad affrontare. Tra i due sembra aver la meglio l’uomo della famiglia Salamanca ma Gus sfrutta un’arma che aveva accuratamente nascosto e uccide Lalo dopo avergli confessato il suo astio verso tutti, Don Eladio incluso, motivato da un profondo proposito di vendetta che non gli consente di esprimersi nella normalità che vorrebbe, potendosi magari innamorare di un altro uomo come gradirebbe. Il cadavere di Howard viene sotterrato sotto il laboratorio dove in Breaking Bad cucineranno i cristalli di metanfetamina Walter White e Jesse Pinkman. Alla serie madre viene ricollegata anche la frase pronunciata da Jimmy quando viene catturato nel deserto, lui è infatti a conoscenza di quanto gli dice Lalo sul fatto che Nacho gli abbia fatto sterminare la famiglia. Per questo l’avvocato, qualche anno dopo, pensando di esser stato catturato dai Salamanca, risponderà che è stato Nacho. Kim e Jimmy collaborano per screditare Howard. Con dei piani geniali lo fanno passare per cocainomane e puttaniere agli occhi di Clifford Main. Kim è la più motivata dei due, avanzando spietata verso l’obiettivo che tanto la diverte. I motivi sembrano risalire al suo passato, vissuto con una madre che era una ladra che l’ha fatta crescere in un ambiente malsano. Jimmy la segue per non deluderla e, avendo difeso Lalo, si rende conto di esser diventato molto popolare tra i criminali locali, dando inizio all’era di Saul Goodman. Howard intuisce come Jimmy stia tentando di sabotarlo, lo sfida e prende a pugni su un ring da boxe e assume un investigatore privato che viene indotto a credere alla corruzione del giudice Casimiro, incaricato della mediazione con la Sandpiper. Kim e Jimmy studiano tutto nel minimo dettaglio e non rinunciano ai loro propositi anche quando si complicano, dopo che Jimmy mentre acquista il Zafiro Añejo scopre Casimiro con un braccio ingessato. Il problema sorge perché l’attore da loro ingaggiato, sosia del giudice, ha girato una scena per incastrare Howard con gli arti superiori perfettamente apposto. Di corsa, per non lasciare nulla al caso, Jimmy e Kim riescono in extremis a riunire la troupe e scattare delle foto (che verranno poi ricoperte da un liquido) che vedono Jimmy in un parco pubblico consegnare all’attore una busta identica a quella in cui Jimmy aveva messo i 20000 dollari, che aveva intercettato l’investigatore privato assoldato da Howard. Nel corso della mediazione del caso Sandpiper, Howard riconosce Casimiro come l’uomo nelle foto corrotto da Jimmy, lo accusa pubblicamente e cade nel tranello tesogli da Jimmy e Kim. La mediazione si conclude senza più alcuna possibilità di alzare la posta per i querelanti e così Cliff è costretto a chiudere subito l’accordo con la Sandpiper per non perdere altri soldi. Jimmy e Kim, una volta ascoltata la conclusione della vicenda, con la prospettiva certa di incassare a breve la quota di Jimmy nell’affare, hanno un rapporto sessuale. Howard, distrutto, li va ad affrontare per capire il perché del loro accanimento nei suoi confronti. Capisce come i due siano fatti per stare insieme, considerandoli dei bambini che vogliono soltanto giocare e provare il gusto della vittoria per mero divertimento. In quel momento, mentre si trova in casa loro, arriva Lalo che lo uccide, chiudendo il cerchio dell’esagerazione di quanto non meritasse subita da Howard. Kim riesce a continuare la sua recita anche alla cerimonia dello studio HHM, ingannando la moglie nel momento di cordoglio in memoria di Howard. La libido tra Kim e Jimmy aumenta con la loro complicità in queste meschinità, fino a quando, in un attimo di lucidità, Kim si rende conto di doversi frenare. Confessa a Jimmy che aveva saputo da Mike che Lalo fosse ancora vivo e non glielo aveva riferito perché si stava divertendo troppo e temeva che lui, impaurito, avesse arrestato il gioco per nascondersi. I due si amano perché insieme riescono a esprimersi a briglia sciolta, liberamente, in maniera decisamente pericolosa per chi gli gravita intorno. Kim diventa ben più perfida di Jimmy che non la ostacola e segue fino infondo. Tocca quindi a lei troncare tutto e decide così di andar via, rinunciando anche al mestiere di avvocato. Jimmy continua a svolgerlo, diventando ricco grazie ai clienti malavitosi che ne ricercano i suoi metodi efficaci e veloci.

Si arriva così al decimo episodio che riprende il filone in bianco e nero che si era visto a ogni inizio di stagione. Siamo oltre Breaking Bad, proiettati nella vita di Jimmy che ha cambiato identità per nascondersi dalla polizia che lo cerca per quanto commesso in combutta con Walter White. Stanco di nascondersi, data la piattezza della sua vita da onesto lavoratore in una pasticceria, si rimette in gioco con la complicità di un tassista, programmando una nuova truffa. Convince il suo nuovo complice facendo leva sugli stessi sentimenti che intercetta in lui di noia, promettendogli di cancellare il grigiore della sua esistenza, regalandogli divertimento. Il tassista si ritrova così convinto a rubare in un centro commerciale, riuscendo nel suo intento non senza patemi d’animo che lo fanno sentire vivo per la scarica di adrenalina e la soddisfazione di aver portato a termine il compito. Jimmy sembra soltanto fintamente felice ed evita di riacquistare degli abiti tipici da Saul Goodman. Le truffe col tassista però continuano, adescando dei ricchi uomini d’affari nei bar per farli ubriacare e fotografare i loro documenti, carte di credito e informazioni sui loro conti corrente. Dinanzi a un malato di cancro, i complici di Jimmy si pongono degli scrupoli che l’avvocato non accetta, pur riflettendo su come sia finita male a tutte le persone che sono state in contatto con lui. La mamma del tassista scopre la vera identità di Saul Goodman con una ricerca online, chiama la polizia e lo mette in fuga. Jimmy viene arrestato e riesce a mediare facendosi ridurre magistralmente la pena dall’ergastolo a soli 7 anni. Nel mentre Kim, travolta dai sensi di colpa, vive priva di gioie. Colpita da crisi di nervi e pianto, per lenire i mali radicati nella sua coscienza, rivela alla moglie di Howard tutta l’assurda verità. Si rimette così al giudizio del procuratore federale che, non disponendo di testimonianze e prove tangibili, non può avviare un processo sulla sua sola confessione. Jimmy, compresa la situazione di Kim, smette di pensare al denaro e all’ambizione di farla sempre franca. Quanto gli importa di più è venire apprezzato da Kim. Decide così di confessare tutto dinanzi a lei in aula, facendosi condannare con formula piena. Kim riacquisisce la migliore considerazione che nutriva in Jimmy. I due sono il centro del mondo dell’altro, il reciproco senso delle loro vite, il significato preponderante del loro essere. La stessa libertà, per Jimmy è nulla al cospetto di cosa pensi Kim. La serie ha una conclusione agrodolce e regala un ultimo spazio a Chuck e alle sue ragioni relative a quando sosteneva di poter cambiare qualora si faccia qualcosa che non piace, tornando sui propri passi. Gli episodi conclusivi sono girati particolarmente bene, coadiuvati da una regia superlativa. Ogni puntata è un piacere per gli occhi, le inquadrature iniziali sono poetiche. Better Call Saul è puro estro artistico, di classe, espresso tramite dei personaggi magistralmente caratterizzati in un mondo (come quello proposto anche in Breaking Bad) di inesauribile bellezza e sfumature di senso di grande rilievo.

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Superlega e romanticismo

La superlega è subito naufragata, dopo appena 48 ore. Le pressioni del governo inglese sui club della Premier League sono risultate determinanti, lasciando ai tifosi l’illusione di averla avuta vinta.

L’interesse di una politica interna che ha dato vita alla Brexit, e che tenta di difendere a ogni costo il mercato domestico senza che esso possa perderne potere, si è coadiuvato con gli interessi della UEFA.

Eppure i problemi del calcio, a me sembrano partire proprio da questa organizzazione che è mancata troppe volte nello svolgere il suo ruolo di controllo, divenendo una società con le sue ambizioni economiche e monopoliste. L’introduzione del fair play finanziario in particolare, basato sulle capacità di spesa dipendenti dal fatturato dei club, ha permesso alle squadre più ricche di mantenere salda la loro posizione di vantaggio sulle altre. In questa maniera, i campionati nazionali, sono diventati ancor più squilibrati e noiosi. A questo si è aggiunto prepotentemente l’ingresso nel calcio di sceicchi che hanno comperato il PSG e il Manchester City, pompando le valutazioni di cartellini e stipendi dei calciatori. La UEFA non ha mai punito questi comportamenti, come per regolamentazione avrebbe dovuto, drogando un mercato al rialzo, con costi sempre più elevati a fronte di ricavi sempre uguali, se non in diminuzione a causa di format obsoleti e sempre meno attraenti per gli appassionati di calcio (che nei più giovani preferiscono ormai i videogame simulati al calcio vero).

La Superlega intende agire in questa direzione per aumentare i ricavi (in considerazione di un prodotto calcio che è ben più spendibile di quanto realizzato finora) e liberarsi della UEFA che non è in grado di vigilare, badando – sempre più ingorda – al proprio tornaconto. Le difficoltà economiche dei principali club europei, non possono essere esenti da colpe individuali di gestione. La loro mira di restare assolutamente competitive, le hanno indotte a non poter adesso sopportare la più importante riduzione dei ricavi, causata dalla pandemia globale. Il problema alla radice dell’aumento esponenziale dei costi, rimane però additabile alla UEFA che ha consentito ai club con più capacità di spesa di agire indisturbati nel tentativo di ottenere qualche vittoria sportiva a suon di centinaia di milioni di euro.

Se affondano i grandi club, a cascata, ne risentono anche i piccoli che si accaparrano diritti televisivi, entrate economiche dai botteghini e interesse generale intorno a loro, principalmente grazie alle big del loro stesso paese che gli strapagano anche i cartellini dei loro giocatori più bravi, avendone le risorse economiche adeguate e possedendo le strutture e il blasone necessario per trattenerli, una volta in grado di fare un balzo di carriera. Con un campionato nazionale meno importante, con i grandi club che giocherebbero più match in Europa, affrontando le partite interne al proprio territorio con meno interesse competitivo, le piccole avrebbero anche più chance per competere per il titolo, potendo mirare a risultati impossibili attualmente, come quello di conquistare uno scudetto.

Risultano ipocriti gli appelli dei tifosi al grido del “calcio del popolo”, contrario a un torneo d’élite tra i club più blasonati d’Europa. Può essere discutibile la forma che non consente a queste squadre di poter retrocedere, in quanto fondatori, non si può però andare oltre, considerando il contesto continentale all’interno del quale il calcio si manifesta e a quanto già assistiamo da decenni. Se nell’Europa capitalista siamo infatti ormai tutti dei consumatori, piuttosto che delle persone, non può sorprendere se nel calcio risultiamo clienti, anziché tifosi. Il sistema economico vigente, si mangia ogni cosa. La ingloba e lascia girare intorno agli interessi economici. Ne sono soggetti anche gli sport e le arti, tutto è ormai mercificato. Nessuno può fuggire e se ci si rende conto che non piace, non ha alcun senso puntare il dito su una sola attività (quale sia questa che gira intorno al mondo del pallone) perché non adeguarsi significherebbe far morire tutto il movimento.

Io mi reputo il primo dei romantici, non ho ancora digerito il cambio del logo e non sopporto le maglie meno tradizionali. Mi sentirei però stupido a combattere i tempi che cambiano, senza capire che sul calcio trovano soltanto degli effetti collaterali di un sistema che, per gli effetti desiderati, andrebbe arrestato alla radice (ma nel caso, considerando le possibili alternative, si produrrebbero altre gravi problematiche).

Il mio approccio prevede di trovare i miei spazi all’interno della realtà, laddove poterci immettere una personale amata dose di romanticismo. Nell’ambito calcistico, ci riesco ad esempio restando vicino alla mia squadra del cuore, senza mai perdermi una sua partita, continuando a vivere le sue vicende (in una sorta di allenamento per tutto il resto) con sentimento e senza quantificazioni. Questa è la mia resistenza ai lati negativi di questo mondo, dal quale prendo i vantaggi e ne trasformo le disgrazie rendendole a me inclini nella possibilità di potermi sempre esprimere per chi indagando mi sono avvicinato a credere di essere.

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La magia dietro l’angolo

Ho scoperto di saper essere ermetico. Di voler alternare all’analitica spiegazione, qualcosa che non si lascia intendere, che tenda al concetto, senza saperlo cogliere in pieno ma vivendolo e trasmettendolo con profondo piacere. Posso trarre questa poesia da ogni evento o istante immortalato in un’immagine statica, così come da una melodia musicale.

Mi si rivela come il quarto stato, oltre al quale non era arrivato Comte che, nella sua teoria dei tre stati, definiva il primo come fittizio, tipico dell’età barbara dove si credeva alle superstizioni. Il secondo come teorico, composto da astrattezze. Il terzo come positivo, elogiando il trionfo della scienza, in una società industriale fatta di progresso tecnologico. Intravedo il quarto nel far ritrovare spazio a fantasia ed emozioni al di fuori della scienza e del materialismo, senza sfociare nella religione.

Mi allineo infatti a Feuerbach, secondo cui è l’uomo a produrre Dio. Ribaltando la visione che vede l’ideale e astratto dar luce al reale e concreto. Dio è una semplice proiezione delle qualità, dei desideri e delle paure dell’uomo. Non sorprende venga dipinto come amorevole, buono, onnipotente e promettente di resurrezione e paradiso. L’ateismo si pone a dovere morale, per non alienarsi nella venerazione di un Dio che estranea da quanto si dovrebbe riversare sugli altri uomini, anziché proiettarle in un’invenzione. La descrizione di un mondo dove tutto è reale e tangibile, svolta da Feuerbach, tutto sommato non mi convince. Quanto ci sia di invisibile però non è questo Dio, quanto la magia che posso far emergere da dietro gli angoli nei quali si può nascondere. Ci sono delle sfumature che si possono trarre andando otre all’esperienza materiale, rendendo tutto più colorito e incredibilmente bello.

Vivo secondo questa concezione quasi metafisica, la considero universalmente conoscibile a tutti ma non ho la pretesa di considerarla tale. Evito di affermare rientri nel vero definibile a priori dell’esperienza, se sia innato in ogni essere umano secondo le stesse strutture che conducono l’uomo a percepire allo stesso modo vari aspetti che si tramutano in certezze, come ci indica Kant nella sua critica alla ragion pura. Ignaro del poter uscire o meno dal mondo empirico e aprioristico che esiste, senza promettere alcuna soluzione ai misteri più grandi, mi pongo leggermente al di fuori di rigidi schemi perché nel soprasensibile si sostanziano le mie più sentite soddisfazioni.

Sognare restando nell’indefinito, riesce a farmi sentire leggiadro, senza peso, travolto da armoniosa agilità. Nell’onirico mi elevo riuscendo a scovare dettagli fatati. Divento un furbo ricercatore e mi rendo pienamente conto, nel suo opposto, da dove si generi tutto ciò che siamo portati a considerare straordinario.

Si placa una visione alla Fichte, fatta di contrasto e inseguimento infinito, di scontro e tensione che pone, nega e ricompone continuamente. Il compiersi e ricompiersi, creare e disfare, si rivela affannoso, pericoloso, arrogante, fintamente esaltante, lasciando finalmente spazio a una dimensione più umana e armoniosa.

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